La parola a Salma Santos

Selma ha 35 anni, è membro del Consiglio dei quilombolas della Valle e della Baia di Iguape e del Consiglio della Resex, oltre che delle Marias Filipas, un gruppo di donne che, all’interno delle comunità, lavora per l’affermazione dei diritti delle donne. Indossa spesso un colorato turbante, simbolo dell’orgoglio della “mulher negra” ed è un’attivista e una fiera rappresentante delle donne quilombolas.

Che impatti hanno avuto la diga e la centrale sul territorio?
L’impatto più evidente è che tutta la produzione di pesce è drasticamente diminuita: mi ricordo che da bambina le ostriche si trovavano nei mangrovieti, oggi si coltivano e basta. Allo stesso modo stanno scomparendo i granchi, i gamberi e altre specie autoctone che ci davamo da mangiare. Oltre a questo da tempo molte persone denunciano un forte prurito che deriva da alcune spugne che si sono formate nel fiume. Tutto nasce dall’arrivo della Centrale idroelettrica, ma non sono mai stati fatti degli studi veri per valutarne l’impatto.

La Centrale esiste dal 2005 perché non fu bloccata allora?
All’epoca non eravamo così organizzati e uniti come oggi. L’azienda che la gestisce, la Votaratim, pagava i municipi e forniva infrastrutture. Si sono comprati il consenso. Noi non eravamo nemmeno considerati come comunità quilombolas. Ci avessero consultato non si sarebbe mai fatta. La stessa cosa con le piattaforme
petrolifere che si trovano più a valle. Tra l’altro l’acqua e l’energia che riforniscono la valle non arrivano da qui. La Centrale funziona solo per Salvador ed è una produzione minima rispetto al fabbisogno. Si tratta quindi anche di un’opera inutile a fronte degli enormi danni che ha causato e causa. Hanno fatto uno scempio di questo territorio, senza considerarei diritti delle persone.

Come comunità che rapporto avete con l’impresa Votorantim, proprietaria della Centrale?
Abbiamo tentato una negoziazione, sono stati istituiti anche dei tavoli di dialogo e sono state decise alcune misure di compensazione e di risarcimento dei danni ambientali. Ma poi non è stato fatto niente. Anzi, sono da poco venuti a proporci dei piccoli progetti compensativi di 15mila reais e a cui solo alcuni  municipi possono accedere. Sono dei palliativi che speriamo non accetti nessuno.

Cosa farete quindi?
Abbiamo detto che non ci fermeremo e non saranno questi progetti ad accontentarci e a metterci a tacere. Pretendiamo degli studi di impatto e il blocco delle attività della Centrale che dal 2009 è senza autorizzazione dell’Icmbio. Inoltre la lotta per la titolazione delle terre quilombolas potrebbe mettere fine a queste speculazioni perché se le comunità rientrassero in possesso delle terre degli avi, avrebbero il diritto di gestirle secondo tradizione: collettivamente e con il rispetto dovuto alla natura. Ma questo, fa paura. E l’iter per ottenere le terre è lungo e pieno di ostacoli.

FOCUS – CHI SONO I QUILOMBOLAS
L’origine della parola “Quilombo” in lingua bantu significa “insediamento” e si riferisce alle comunità nate dagli africani schiavizzati o fuggiti, o lasciati andare, dai fazendeiros dopo l’abolizione della schiavitù, nel 1888. Risale al 1988 invece la prima legge che riconosce il loro diritto a rivendicare le terre dei loro avi, quelle dove hanno vissuto e lavorato in condizioni di schiavitù per secoli. Quel diritto è rimasto lettera morta fino al 2003 quando, grazie a un decreto dell’allora Presidente Lula, si dette il via all’iter che permette oggi di richiedere e riscattare le terre da parte delle comunità. Il decreto diceva che si poteva definire quilombo ogni gruppo che avesse “una discendenza africana connessa a una storia di resistenza o di oppressione”. Oggi sono 2.847 quelli riconosciuti e 6.000 in tutto quelle intenzionate a fare richiesta del percorso. Gli ostacoli però sono ancora molti: dalle minacce e in alcuni casi assassinii di leader quilombolas, (14 solo nel 2017 ndr), alle lungaggini burocratiche, dai costi Nei documenti da produrre alle resistenze dei discendenti dei fazendeiros o delle imprese presenti. I quilombolas lavorano le loro terre con i principi dell’agroecologia e dell’economia sociale, vivendo in simbiosi con gli elementi naturali, dalle attività produttive alle pratiche ancestrali legate all’utilizzo di erbe medicinali.

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