Intervista a Emanuela Evangelista di Roberto de Meo
Emanuela Evangelista, biologa della conservazione e attivista ambientale, vive da vent’anni nel villaggio fluviale di Xixuaú nel cuore dell’Amazzonia, dove è impegnata nella difesa della foresta e nel sostegno ai popoli indigeni. La intervistiamo in seguito all’usci- ta del suo primo libro, Amazzonia. Una vita nel cuore della foresta (Laterza, 2023), in cui racconta la sua storia, la sua vita quotidiana, le sue battaglie.
Partiamo da uno dei fenomeni che destano più allarme in Amazzonia relativamente al cambiamento climatico: la siccità. Nel 2023 la stagione secca è stata straordi- nariamente siccitosa, toccando il record estremo degli ultimi 100 anni. Come si preannuncia la stagione secca del 2024?
Come tutti gli anni, dopo la stagione secca finita nel febbraio/marzo 2024, sono iniziate le piogge e il livello dei fiumi è cresciuto fino a giugno. Normalmente il livello dei fiumi rimane stabile per mesi, mentre invece quest’anno ha già ripreso a scendere e ora, a settembre, siamo già in fase di discesa. A ovest, nel sud dell’Amazzonia, si vedono già i segni di una nuova siccità estrema e ci sono inquietanti segnali di allarme quali una moria di delfini. Il livello del Rio delle Amazzoni è già due metri inferiore al 2023, ci si aspetta quindi di superare il record dell’anno precedente.
E quali sono gli effetti sui popoli che vivono in Amazzonia?
La gente rimane isolata, perché si sposta principalmente per vie fluviali, e quindi è costretta a dipendere dagli aiuti esterni per cibo e acqua. Per i popoli rivieraschi, come quelli che vivono sulle sponde del Rio Negro, diventa necessario percorrere anche 2 chilometri a piedi ogni volta che ci si deve approvvigionare di acqua. Inoltre aumenta moltissimo il rischio di incendi.
Si parla perciò del rischio che la foresta amazzonica si trasformi in savana. Di cosa si tratta?
Al momento tra il 17 e il 18% della foresta è stata colpita dalla deforestazione. Alcuni studi ritengono che, raggiungendo il 20%, il 70% della foresta non sia più in grado di rigenerarsi e collassi verso la trasformazione in savana; tutto ciò può avvenire in pochi decenni, dipende dal ritmo della deforestazione. Da dove vi parlo, dove vivo io, la foresta è integra, ma verso i confini, in regioni che soffrono già da 30 anni, il punto di non ritorno è già avvenuto: il tasso di mortalità degli alberi è aumentato, la stagione secca è passata da tre a cinque mesi, ai margini il collasso sta già iniziando.
C’è stato un cambiamento nel ritmo della deforestazione con il passaggio di Lula al posto di Bolsonaro alla presidenza del Brasile nel novembre 2022?
I dati non sono lineari. Secondo l’Imazon (Instituto do Homem e Meio Ambiente da Amazônia) negli ultimi 11 mesi, fino a febbraio 2024, il ritmo della deforestazione è calato del 63%, e questo è merito della politica di Lula. Da aprile ad agosto, però, a causa delle alte temperature che rendono più facili gli incendi e più fragile la foresta, il ritmo della deforestazione è risalito. Gli incendi sono tutti dolosi, quindi fermando la deforestazione si fermano gli incendi e si blocca il degrado della foresta.
E quanto tempo abbiamo per fermare questo processo?
Mantenendo i ritmi attuali, per arrivare al punto di non ritorno del 20% di deforestazione si calcola che abbiamo da 40 a 15/20 anni, a seconda dei modelli: in ogni caso si tratta davvero di poche decadi.
Quali conseguenze ci sarebbero?
La foresta amazzonica è vasta 6 milioni di chilometri quadrati e accoglie 400 miliardi di alberi che immagazzinano circa 200 miliardi di tonnellate di carbonio. Se la foresta collassa si liberano almeno 300 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Per avere un’idea, ogni anno il nostro pianeta emette 30/37 tonnellate di anidride carbonica, quindi il rilascio corrisponderebbe circa a 10 anni di emissioni globali, una sconfitta totale sul piano del riscaldamento climatico. Questa è la conseguenza più facile da intuire, ma non è facile capire tutto l’intreccio di fattori che ne conseguirebbero, nel momento in cui salta un elemento fondamentale per l’equilibrio climatico. Il Brasile, per esempio, andrebbe in crisi, in quanto la pioggia che rende fertili le terre del sud del Brasile e del nord dell’Argentina arriva dai famosi “fiumi volanti”, immortalati da Salgado in Amazzonia. Questi territori sono alla latitudine dei deserti degli altri continenti e senza il contributo idrico della foresta andrebbero incontro a un processo di desertificazione.
Quali possono essere gli interventi di contrasto a questo processo?
Bisogna procedere su due binari paralleli. Il primo è la protezione della foresta ancora esistente, abbiamo detto che si tratta di un po’ più dell’80%. Deve essere una protezione totale, ma sostenibile per i popoli che vi vivono e che devono poter attingere alle sue ricchezze. L’altro piano è quello della riforestazione dove sono avvenuti i tagli e il disboscamento: il 18% corrisponde circa a 1 milione di chilometri quadrati, una superficie simile a quella di Francia e Italia messe insieme. Esiste poi una superficie analoga di foresta degradata a causa del bracconaggio (di specie pregiate animali e vegetali), dell’inquinamento da mercurio dei fiumi per l’estrazione mineraria, in generale di un suo sfruttamento non sostenibile. Anche questa superficie deve essere curata e riportata alla sua integrità. Tutti gli interventi però devono avere un comune denominatore, che è la lotta alla povertà dei 47 milioni di abitanti dell’Amazzonia. In Brasile oltre la metà della popolazione è sotto la soglia di povertà e da questo ne conseguono attività illegali, come il taglio degli alberi, la caccia e la pesca predatoria, l’invasione dei garimpeiros, tutte attività che dipendono dalla mancanza di alternative di sostentamento.
Diversa situazione è nelle regioni soggette alla monocoltura di soia: qui occorrono degli incentivi che favoriscano la riforestazione rispetto all’affitto delle terre ai produttori di soia. Lula ci sta provando, sia accogliendo aiuti economici internazionali destinati a sviluppare sul territorio attività alternative alla soia, sia contrastando pesantemente con l’esercito le attività illegali, spesso gestite dal narcotraffico.
Cosa possiamo fare per sostenere l’attività di contrasto alla deforestazione dell’Amazzonia?
Il Brasile è il primo produttore mondiale di soia, che viene utilizzata principalmente come mangime per gli allevamenti intensivi di animali (bovini, suini, pollame). Il gesto fondamentale che ciascuno di noi può fare è quello di smettere di mangiare la carne che proviene da questi allevamenti. Una riduzione significativa del nostro consumo o una scelta attenta della carne è il primo e più importante contributo che possiamo dare nella lotta alla deforestazione.
Tu hai fondato una ong, Amazônia ETS, che sostiene i nativi nella lotta contro la deforestazione e per la conservazione del- la foresta tropicale e della sua biodiversità. Come si svolge la sua attività?
Il primo punto consiste nell’aiuto alle comunità tradizionali a proteggere la foresta, sviluppando attività economiche sostenibili come il turismo o l’artigianato. Il secondo riguarda gli interventi di riforestazione delle aree degradate. Si tratta di un’azione molto difficile, perché bisogna mappare i territori, convincere i proprietari dei terreni, affrontare complicati passaggi burocratici; paradossalmente il momento pratico della ricollocazione delle piante è il più semplice. Insieme alla popolazione nativa del Rio Jauaperi, affluente del Rio Negro, uno dei principali tributari del Rio delle Amazzoni, abbiamo ottenuto la creazione di un’importante area protetta, con un’estensione di quasi 600mila ettari, pari a due terzi della Corsica. Il Parco Nazionale dello Jauaperi garantisce agli abitanti locali il diritto di residenza, un ruolo attivo nella gestione del territorio, la protezione delle tradizioni e l’uso sostenibile delle risorse naturali. Con la sua inestimabile ricchezza paesaggistica e di biodiversità, il parco va ad aggiungersi a un importante corridoio di aree protette e rappresenta un baluardo nodale per la lotta al caos climatico.
Quale è il ruolo delle popolazioni locali in tutto questo? Come sono cambiati negli ultimi venti anni in termini di consapevolezza e attivismo? Riescono a interagire con la politica e le istituzioni?
Innanzitutto dobbiamo premettere che ci sono moltissime etnie diverse e che ancora si contano almeno 80 popolazioni isolate, che hanno scelto di non avere contatti con il resto del mondo. Poi esistono altre realtà, di popolazioni che vivono entrambe le vite e sono capaci di entrare e uscire dalla modernità, vivendo in maniera tradizionale all’interno della foresta, come si viveva 50 anni fa, ma poi sono in grado di affrontare la civiltà urbana e hanno acquisito consapevolezza con i media, prima l’elettricità, la tv, ora internet. Quasi tutti usano WhatsApp per comunicare tra loro, e anche Facebook e Tiktok: è perciò molto importante che imparino a adoperare bene questi mezzi, per trarne informazioni utili anche alla loro vita tradizionale (per esempio informazioni medico-sanitarie) invece che assorbire contenuti senza valore. Alcuni di loro stanno diventando influencer su Tiktok, raccontando come si vive nella foresta, quali sono i metodi della medicina tradizionale, le storie dall’interno del loro mondo. Non vogliono più essere raccontati dagli altri, ma vogliono essere loro stessi a raccontarsi. Spesso sono protagonisti anche nell’interazione con la politica e con le istituzioni, basti pensare ad esempio che in Brasile dall’anno scorso esiste un Ministero dei popoli indigeni e il ministro è una donna indigena.
Uno sguardo sul futuro prossimo, visto che il tempo non è molto: sei ottimista o pessimista?
Sono ottimista guardando alle possibilità scientifiche e tecnologiche che esistono per contrastare il riscaldamento globale. Preoccupata per i tempi: siamo lenti, mentre il nemico è molto veloce. La volontà politica dipende dagli elettori e non sembra che a livello di società esista una forte consapevolezza del problema tale da influenzare i programmi e le azioni dei partiti. Bisogna che ognuno faccia la sua parte, a livello politico e personale: il pianeta non può farcela a sostenere otto miliardi di carnivori.