Intervista ad Alexander Arteaga di Pamela Cioni
Alexander Arteaga ha 25 anni, studia arti plastiche all’Università di Popoyan e da quattro milita nel collettivo giovanile La Inconformidad (“Il disaccordo”) di Mocoa, capoluogo del Putumayo, dipartimento colombiano. Il Putumayo è storicamente una regione molto sfruttata, proprio a causa della sua grande ricchezza, in termini di biodiversità e presenza di minerali; inoltre qui più che altrove il conflitto armato interno è stato particolarmente cruento e ha lasciato grandi conseguenze economiche e sociali. Nato nel 2021, nelle ultime fasi della pandemia, su questioni più ampie legate all’insoddisfazione giovanile riguardo alle politiche sociali e culturali di un governo molto distante, La Inconformidad piano piano si è focalizzato sulle problematiche ambientali della regione. Problematiche ampie, che negli ultimi anni hanno un nome e un cognome: Libero Cobre, multinazionale che sta tentando di entrare a nord della città per estrarre rame e — di conseguenza — distruggere il territorio e il tessuto sociale del luogo, come sempre è successo con l’arrivo di questi mostri estrattivi. La Inconformidad oggi ha come obiettivo quello di muovere e far mobilitare i giovani della città intorno a obiettivi comuni come la salvaguardia del territorio e l’educazione ambientale nelle scuole. E ci sta riuscendo.
Questo nome, “Il disaccordo”, è già un programma. Come lo avete deciso?
Abbiamo deciso questo nome, per prima cosa perché eravamo tutti insoddisfatti di ciò che stava accadendo intorno a noi, non solo nel contesto locale, nel Putumayo o nella città di Mocoa, ma a livello nazionale, in tutto il paese. Non eravamo d’accordo con le politiche del governo, non eravamo d’accordo su come si stava trattando la questione culturale nella nostra città ecc… Quindi abbiamo detto, beh una cosa su cui siamo d’accordo è che non siamo d’accordo, siamo insoddisfatti di tutto!
Ad esempio, nel Putumayo non c’è un’università pubblica e molti di noi per studiare devono andarsene. E se mancano le giovani generazioni in un territorio, mancano le energie per il cambiamento. Anche noi come gruppo ne abbiamo sofferto perché rischiamo ogni anno di perdere dei componenti. La richiesta di università pubblica è stata tra le prime che abbiamo fatto alle istituzioni. Insomma, è stata l’insoddisfazione su tanti fronti a mobilitarci. Inizialmente abbiamo pensato di darci come obiettivo principale quello di sviluppare il pensiero critico nei giovani. Nei primi tempi abbiamo messo su una “scuola di strada”, che consisteva sostanzialmente nel sedersi nei parchi per parlare e discutere di questioni ambientali, politiche, culturali, dove la discussione generava conoscenza tra noi e tra coloro che avrebbero partecipato allo spazio. Le principali tematiche su cui ci siamo concentrati erano sostanzialmente cinque: pace, territorio, ambiente, genere ed educazione. Ma ben presto ci siamo concentrati principalmente sulla questione legata alla multinazionale che sta tentando di entrare nel territorio per estrare minerali, rame o molibdeno la Libero Cobre o Libero Coopers. Anche se questo è solo l’ultimo degli attacchi fatti al nostro territorio, perché da qui “rubano” da sempre le materie prime: c’è stato il boom della quinoa, della gomma, del petrolio e ora il rame.
Quali attività avete fatto come collettivo per contrastare queste derive legate all’accaparramento delle risorse e della conseguente distruzione sociale ed economica di questo territorio già fortemente provato?
Abbiamo iniziato a sviluppare diverse proposte legate alla questione ambientale,tra queste un progetto chiamato Nacederos (“Fonti”), che consiste principalmente nell’educazione ambientale legata alle fonti di acqua e a fauna e flora a esse correlate. Organizziamo tour territoriali per gruppi di persone, tra cui molti bambini e bambine, cercando e dando informazioni relative alle sorgenti e al terrtiorio in cui si trovano; dai primi tour sono nati anche un libretto e alcune mappe didattiche e tecniche. Partecipiamo anche a una piattaforma giovanile regionale e abbiamo sostenuto altri processi, come “Medio Afan”, affrontando problematiche puntuali come le discariche abusive o anche quella municipale che non funziona bene. Inoltre, come collettivo, facciamo parte di un’associazione che raccoglie più collettivi, i “Guardiani dell’Amaz- zonia andina”, che si concentrano molto sulla questione di Libero Cobre, perché la paura del degrado del territorio, della distruzione, della contaminazione dei fiumi e di tutto ciò che deriva dall’attività estrattiva di media o grande scala, è fortissima per tutta la regione e dovrebbe esserlo a livello nazionale e internazionale. Infatti quello che accade qui ha una conseguenza su tutto l’ecosistema mondiale, oltre che sulle nostre vite. Con l’arrivo dell’attività mineraria arrivano conflitti socio-ambientali, conflitti armati, violenza di genere contro le donne. Noi ne siamo molto consapevoli e cerchiamo di rendere tutti consapevoli, per questo siamo molto interessati all’educazione e al tentativo di partecipare ai processi formativi dei giovani.
E cosa avete fatto rispetto al Libero Cobre?
Nessuna azione diretta, perché diciamo che non è un modo in cui possiamo agire, ma piuttosto a noi interessa la pedagogia, la formazione, l’educazione e come da lì cerchiamo di incoraggiare appunto il pensiero critico contro l’estrazione mineraria e sulla necessità di prendersi cura degli ecosistemi dell’Amazzonia andina. Crediamo che parlare del territorio e riconoscerlo permetta di sapere cosa non va bene e anche cominciare a difenderlo e a dire “no!”. Perché, chiaramente, quando queste multinazionali arrivano raccontano molte cose false e promettono molto alla popolazione: posti di lavoro, energia pulita, infrastrutture ecc… E in territori fragili culturalmente ed economicamente come i nostri è facile avere ascolto e, spesso, approvazione per questi progetti.
Libero Cobre si propone (basta andare su loro sito web) come un colosso nella produzione di energia pulita. Questa però, accanto a tutto quello che mi racconti, è una grande contraddizione: l’energia pulita per una parte di mondo, che non sa cosa accade qui, ricade su territori e persone in termini di sfruttamento e degrado…
Per le aziende, e soprattutto per le multi- nazionali e le transnazionali, l’unica cosa che interessa davvero, indipendentemente da ciò che fanno, è generare denaro. In questo senso, non c’è alcuna preoccupazione per il futuro del luogo in cui operano. Perché? Perché, se c’è la redditività, il resto non conta. Pensando a questo, in un contesto globale dove la transizione energetica dovrebbe essere possibile, in realtà non lo è, perché è evidente che il danno è maggiore della cura. Quindi mi sembra assurdo che non ci si preoccupi di danneggiare un luogo come la foresta amazzonica andina che di fatto genera acqua, che sta finendo, e che genera ossigeno, che sta finendo, per avere il rame, che inquina e che distrugge. È un paradosso.
Che reazione trovate nella gente di Mocoa quando fate educazione ambientale, manifestazioni o appelli?
Diciamo che i più giovani sono i più attenti, ma in generale tutta la popolazione di Mocoa, soprattutto chi vive qui da sempre, è molto sensibile a queste questioni, perché sa che il territorio può essere molto delicato o molto fragile e può essere facilmente danneggiato. Questo è stato particolarmente evidente dalla inondazione nel 2017, quando i torrenti Tarica e Taruquita, affluenti del fiume Mulato, sono esondati e hanno provocato morti, feriti e ingenti danni. La causa dell’esondazione e della conseguente inondazione della città è da ricercarsi nella deforestazione e nella distruzione della terra e anche nella poca consapevolezza dell’ecosistema dove ci troviamo a vivere. C’erano case costruite sul fiume, in un territorio pedemontano dove gli smottamenti sono continui… Improvvisamente sulla città si è abbattuta una colata di fango, di detriti, acqua e roccia. Un disastro che qui ha lasciato molto dolore e sofferenza.
Come giovani vedete la possibilità di un cambiamento reale?
Certo, diciamo che la lotta consiste sostanzialmente nel continuare a insistere sulla possibilità di convivere con un territorio, cioè di poter abitare questa terra senza la necessità di distruggerla o di generare danni neanche minimi. E in questo caso come è possibile farlo? Contro una multinazionale non si combatte con una pietra o con un machete, ma attraverso azioni legali e con una lotta essenzialmente culturale, perché quello che sta facendo l’azienda è “deculturizzare”,o meglio trasformare la cultura della gente di questo territorio in qualcosa che serve a loro, trasformando i modi e le pratiche di vivere in questo luogo. Oltre all’aspetto tecnico e legale, di cui si stanno occupando in molti, crediamo quindi, ed è quello di cui ci occupiamo noi, che sia importante trasformare l’immaginario, o almeno dare elementi di critica e di riflessione maggiori agli immaginari collettivi. Come giovane, credo in questo. E lo faccio anche con il mio studio e la mia arte, il disegno, la scultura e la trasformazione di concetti in immagini.
In Italia si parla di eco-ansia tra i giovani, una certa inquietudine verso il futuro generata per lo più dall’incombere dei cambiamenti climatici, l’hai mai avvertita?
Il futuro è molto molto caotico. Credo che sia successo a molti perché davvero i cambiamenti che stanno avvenendo oggi stanno andando troppo velocemente: è difficile digerire tutto quello che succede e non è un segreto per nessuno che il cambiamento climatico sia oggi la realtà, non è più come 10 anni fa. Quindi sì, le persone si sentono sotto pressione, perché in un modo o nell’altro l’immaginario che le grandi multinazionali, che lo Stato stesso, gli Stati stessi, generano sulle persone, è che sia tutta colpa dell’individuo: ma in realtà la colpa non è delle persone nella loro individualità, la colpa è di tutte quelle aziende e grandi potenze che cercano soltanto di continuare a vendere, continuare a generare un’economia che cresce, ma non si ferma. Ma un’economia illimitata, che continui a crescere per sempre, non può esistere.