Intervista ad Ali Bousselmi di Wahid Chehed
In una società in costante trasformazione, dove i dibattiti sullʼuguaglianza e sui diritti umani sono sempre più importanti, alcune figure emergono con forza e singolarità. È in questo contesto che prende forma la storia di Ali Bousselmi, fondatore dellʼassociazione Mawjoudin e attivista per i diritti Lgbtqia+.
Questo ritratto mette in luce non solo la sua lotta, ma anche il complesso contesto in cui si svolge. In Tunisia, dove i diritti delle persone Lgbtqia+ restano gravemente ostacolati da leggi discriminatorie e da un clima sociale teso, le associazioni come la sua operano sotto costante pressione. Nonostante questo, Bousselmi continua il suo lavoro. Anche le ragioni per cui si è stabilito in Francia rivelano molto di questa lotta: un bisogno di sicurezza personale, ma anche lʼopportunità di amplificare la sua attività di advocacy a livello internazionale.
UN INIZIO DIFFICILE: TORNARE ALLE ORIGINI
Per cominciare, ci può accompagnare in un viaggio attraverso la sua storia? Cosa lʼha portata al punto in cui si trova oggi?
Sono state le persone che mi circondano, lʼambiente in cui sono cresciuto e un poʼ di fortuna a portarmi qui. Fin da quando ero adolescente, tra il 2005 e il 2010, gli amici di mio padre mi chiedevano a volte di andare con loro alle riunioni di Amnesty International. Lʼho fatto due o tre volte, ma ho smesso perché non trovavo nessuno della mia età e questo mi scoraggiava. Poi, nel gennaio 2011, la mia amica Sinda Garziz mi disse che stava preparando lʼAssemblea generale di Amnesty International – sezione tunisina – con altri membri, e mi chiese di unirmi a loro. Ho detto di sì. Da allora sono rimasto con Amnesty fino al 2014. È stato anche grazie alle persone incontrate durante questa esperienza che è nato il desiderio di creare uno spazio sicuro per la comunità Lgbtqia+ in Tunisia. Lʼidea ha iniziato a prendere forma nel 2013, quando abbiamo lanciato una pagina Facebook per sostenere lʼiniziativa.
Ogni viaggio ha un inizio. Come si è svolto il tuo e quali sono state le prime influenze che ti hanno formato?
Il mio viaggio finora è stato piuttosto agevole – con i suoi alti e bassi, naturalmente – ma sempre con i piedi per terra e un minimo di realismo. Non credo in simboli o modelli da seguire solo perché considerati storie di successo. Preferisco osservare, imparare dagli altri, dai loro successi e dai loro errori. Ma ad essere onesti, ci sono state persone nella mia vita senza le quali, forse, il mio percorso sarebbe stato molto diverso. Penso alla persona che mi ha chiamato per andare ad Amnesty: Sinda Garziz, o ad Abir Boukornine, mio socio e cofondatore di Mawjoudin insieme a Syrine Boukadida. O anche a Sondes Garbouj, psicologa, attivista femminista e alleata della comunità Lgbtqia+ che è stata presente fin da quando Mawjoudin era solo una vaga idea. E anche molti altri amici ma soprattutto la mia famiglia, che mi ha sempre sostenuto, ha rispettato le mie scelte e mi è stata vicina. È anche importante dire che non mi sono mai ispirato a un modello europeo o a qualsiasi altro modello esterno. Volevamo davvero creare qualcosa che assomigliasse a noi – donne tunisine, nordafricane e africane.
LA SCOPERTA DI SÉ: UNA STRADA A VOLTE TORTUOSA
La sua infanzia nella medina di Tunisi deve essere stata caratterizzata da emozioni e sfide. Come ha vissuto questo periodo da giovane, cercando di capire la sua differenza?
Ho avuto unʼinfanzia abbastanza normale ed è stato da giovane che ho iniziato a sentire di essere “diverso”. Ma non per la mia sessualità – no, era qualcosʼaltro. I miei gusti in fatto di musica, cinema, amore per il teatro… Rispetto ai ragazzi del mio quartiere, mi sentivo di un altro pianeta. È così che mi sono reso conto di essere diverso. Ma non ho mai avuto un “armadio” da cui dovevo uscire, come si suol dire. La mia adolescenza si è svolta come avevo immaginato nella mia testa: ho lasciato il segno nel mio quartiere, affrontando i giovani, soprattutto quelli omofobi o ignoranti. Perché nella lotta per i diritti umani spesso è una questione di spazio. E nessuno ti dà spazio: devi prenderlo, imporre te stesso, imporre il rispetto, senza doverti giustificare con nessuno. Nella mia famiglia non è mai entrato il discorso religioso. Sono stato incoraggiato a forgiare la mia personalità, le mie idee, le mie convinzioni. Inoltre, fin da bambino ho visto coppie omosessuali intorno a me, a casa mia; quindi, non lʼho mai vissuto come qualcosa di “anormale”.
Lei ha detto che Internet è stata la porta dʼaccesso alle sue prime esplorazioni. In un periodo in cui lʼaccesso era ancora limitato in Tunisia, come ha utilizzato questo strumento per avanzare nel suo percorso?
Dopo la rivoluzione (2011 ndr) tutti sono andati su Facebook per seguire le notizie e ciò che accadeva nel Paese e nel mondo. Sono state create molte pagine e sono nati forum di discussione. Ricordo molto chiaramente che in Tunisia cʼera una stazione radio Lgbtqia+ alla quale sono stato invitato a partecipare e poi a essere coinvolto più attivamente. Cʼera anche la rivista Gayday e il suo fondatore mi contattò per partecipare allʼiniziativa. Ero già noto per i miei scritti impegnati, in particolare sulle persone Lgbtqia+, ma anche per le mie posizioni schiette sui social network – tutto questo molto prima della creazione di Mawjoudin, che poi è nato nel 2013 come pagina facebook. Poi ci siamo presi il tempo di pensare seriamente: creare unʼassociazione o no? Non è stata una decisione facile. Rimanere online, in un certo anonimato, o agire sul campo, dichiarandoci ufficialmente unʼassociazione, con tutti i rischi e le responsabilità che questo comporta?
Nella lotta per i diritti umani spesso è una questione di spazio: devi prendertelo
Ripensando a quel periodo, cosa significa per lei oggi la parola “queer” e come ha cambiato il suo modo di vedersi?
Un tempo non si parlava di queer. Si usavano invece termini come “gay”, “Lgbtqia+”, “omosessualità” e altre espressioni che oggi non si usano più o non sono più considerate politicamente corrette. Per quanto mi riguarda, ho sempre sentito di essere queer, molto prima che la parola fosse resa popolare. In effetti, oggi è il termine che più si avvicina a ciò che sono, anche se, a dire il vero, odio mettermi in scatole o sotto etichette. Uso la parola queer e la affermo, soprattutto in contesti politici specifici. Per me è una parola carica e potente che va oltre lʼidentità personale: è una posizione politica. Essere queer significa non corrispondere alle norme imposte dalla società e dal sistema in termini di genere e sessualità. È un modo per dire: “Sono qui, in modo diverso”, senza compromessi.
Di fronte alle avversità, quali sono i punti di forza che hai trovato per rimanere fedele a te stesso e al tuo percorso, anche di fronte ai giudizi esterni?
Non ho mai prestato molta attenzione ai giudizi esterni, i giudizi non aiutano una persona a progredire o a evolversi. Dʼaltra parte, faccio attenzione alle critiche. Credo che derivi sia dalla mia educazione che dal mio carattere: questa necessità di andare avanti, di affrontare qualsiasi battaglia e soprattutto di rimanere fedele a me stesso. Ma non è solo una questione di volontà personale. È fondamentale avere intorno a sé le persone giuste che ti dicono la verità, che ti criticano in modo costruttivo, che ti fermano quando inizi a fare la cosa sbagliata o ti sfugge di mano, persone che ci amano abbastanza da rimetterci in carreggiata e da sostenerci, sempre.
ARTE E ATTIVISMO: PASSIONI CHE SI INTERSECANO
Lei ha sviluppato una passione per la fotografia in giovane età. Cosa significa per lei questa forma dʼarte e quali storie spera di catturare attraverso lʼobiettivo?
Devo questa passione a mio padre. A un certo punto abbiamo persino sviluppato le foto a casa, usando una macchina fotografica a pellicola. Questo significava molto: erano momenti intimi della nostra vita. La fotografia, oltre a essere una forma dʼarte, riflette anche una parte del mio carattere. Sono una persona che osserva molto prima di agire. Direi addirittura che sono più un osservatore che un esecutore. Se dovessi riassumere il tutto in una frase: voglio catturare attraverso lʼobiettivo la storia della vita umana – la sua bontà e la sua crudeltà. Soprattutto i momenti crudeli, il dolore silenzioso, le ingiustizie: portarli alla luce è già un modo di agire, di dire che esistono, di non distogliere lo sguardo.
Il Mawjoudin Queer Film Festival è diventato una vetrina unica per lʼarte queer nella regione. Quali sono i momenti salienti o le opere memorabili che le vengono in mente quando ripensa a questo evento?
In realtà il primo festival queer nella regione Mena è stato il Kooz Queer Film Festival in Palestina, organizzato dal 2015 dai nostri amici di Aswat. Il Mawjoudin Queer Film Festival (Mqff) è arrivato più tardi, nel 2018, come secondo festival queer della regione. Molto presto abbia – mo voluto allontanarci dal quadro tradi – zionale e abbiamo preso una direzione diversa: siamo diventati un festival Swana (South West Asia and North Africa) e non più un festival Mena, per scelta politica e anche per solidarietà decoloniale. Va detto che, rispetto alla Palestina, è stato più facile per noi invitare artisti e attivisti, il che ha contribuito a questa espansione. Il programma del Mqff è stato concepito per essere multidisciplinare: non ci siamo fermati alle proiezioni di film e ai dibattiti. Abbiamo offerto anche performance artistiche, workshop, mostre, installazioni luminose e sonore, panel e, per concludere, una serata queer. Per noi organizzatori, i quattro giorni del festival sono momenti intensi, al tempo stesso faticosi e magici: un enorme stress me – scolato a tanta gioia, amore e solidarietà. Questo sostegno da parte della comunità e degli alleati, questa energia, è ciò che a volte ci permette di dimenticare per un momento la costante insicurezza. Perché sì, siamo un festival queer in un Paese in cui lʼomosessualità è ancora criminalizzata, punibile fino a tre anni di carcere. Ma siamo qui. E siamo saldi.
Lei ha sempre incluso lʼarte nel suo attivismo. Che ruolo pensa che abbia la creatività nel decostruire i tabù sociali?
Lʼarte trascende i confini. Ad esempio, spesso è difficile condurre unʼazione di advocacy congiunta con altri Paesi, per condurre campagne collettive, perché i contesti sono così diversi. Le realtà sociali, politiche e culturali variano da un luogo allʼaltro, il che rende complesso lavorare insieme. Dʼaltra parte, con lʼarte è possibile costruire ponti con il mondo intero. La creatività ha un ruolo fondamentale nellʼabbattere i tabù. Anche i temi più complessi o sensibili, come lʼomosessualità o le questioni Lgbtqia+, finiscono per rompere i tabù grazie allʼarte. In Tunisia, la sola presenza di personaggi Lgbtqia+ nei film ha già abbattuto le barriere. Non è più un tabù come un tempo. E, paradossalmente, questo lo rende più accessibile e visibile. Inoltre, producendo film e altre opere, aumentiamo la nostra visibilità e questo ci permette di avere un impatto maggiore sulla scena internazionale. Ci permette di far parlare di noi, di entrare in contatto con altri movimenti, altri creatori e nuove idee. Il nostro ruolo, come produttori e creatori, è quello di stare vicino alla nostra comunità, di capire le loro esigenze e di sostenerli nella realizzazione delle loro creazioni. Vogliamo offrire loro uno spazio in cui possano esprimersi liberamente, soprattutto su temi spesso trascurati, come le realtà queer.
Ha un progetto artistico che sta ancora sognando di realizzare, qualcosa che po – trebbe amplificare la sua visione o quella di Mawjoudin?
Il progetto teatrale Flagranti mi sta particolarmente a cuore. È unʼopera teatrale prodotta da Mawjoudin, con il regista Essia Jaibi. Tra il 2022 e il 2024 abbiamo messo in scena più di 22 spettacoli, tutti esauriti, il che è un vero successo. Abbiamo anche avuto lʼopportunità di recitare a Colonia, in Germania, nel 2023, invitati dal Comune di Colonia. Ciò che mi colpisce di più di questo progetto è vedere lʼemozione del pubblico a ogni spettacolo. Le lacrime, gli sguardi sconvolti e le persone che si avvicinano a noi dopo lo spettacolo per offrirci il loro aiuto: avvocati, medici, artisti, attivisti e molti altri. Non voglio che questo progetto finisca. Il mio sogno sarebbe poter fare una tournée europea con Flagranti, ma purtroppo si sta rivelando molto complicato per il numero molto alto dei componenti del team di produzione, a causa dei visti da chiedere e la paura che molte produzioni hanno che gli artisti chiedano asilo in Europa, È qui che punto il dito contro la banalità delle frontiere e il sistema dei visti che ci impedisce di vedere il mondo che pure ci appartiene. Ci viene impedito di muoverci liberamente, di mostrare il nostro lavoro e le nostre capacità su scala internazionale, semplicemente perché proveniamo da Paesi considerati terzo mondo in questo sistema capitalistico. Ma nonostante tutto, non perdiamo la speranza e continuiamo a sognare in grande.
L’arte trascende i confini e abbatte i tabù
GUARDARE AL FUTURO: EREDITÀ E SPERANZE
La Tunisia sta vivendo grandi cambiamenti sociali. Quali cambiamenti sperate per le future generazioni Lgbtqia+ ?
Spero di tutto cuore che le giovani generazioni vivano in un mondo dove non dovranno lottare contro la criminalizzazione dellʼomosessualità o della differenza. Un mondo in cui, al contrario, la diversità sarà protetta e dove regneranno la giustizia e lʼuguaglianza, affinché ognuno possa vivere nella dignità umana, come sancito dalla Costituzione. Il mio sogno è che siamo finalmente considerati per quello che siamo, non come cittadini di seconda classe, ma come persone a pieno titolo, degne di rispetto e di uguaglianza.