PAROLE E SOCIETA’: cosa è successo negli ultimi 15 anni

di Margherita Accornero e Flavia Fini

Rileggere gli articoli di Babel del 2008 è un interessante esercizio di memoria. In 15 anni lo scenario politico internazionale è mutato prendendo direzioni inaspettate: dalla crisi economica, le primavere arabe, alla cosiddetta crisi migratoria del 2015, lo scoppio di conflitti fuori e ora dentro l’Europa, alla Brexit, alle lotte di attivisti e attiviste per i cambiamenti climatici e nell’ambito di transfemminismo e antirazzismo, passando per la pandemia e l’ascesa dell’estrema destra in Europa e in Italia.
Nonostante i profondi cambiamenti sociali e politici, alcune riflessioni permangono, talvolta assumendo nuove forme e direzioni. Tra queste, il tema del linguaggio e delle parole resta centrale nell’analisi del discorso pubblico e dei grandi fenomeni sociali, dai quali risulta sempre di più l’emergere di nuovi linguaggi e rappresentazioni. Che lingua e realtà siano due dimensioni intrecciate in costante influenza reciproca e che il nostro immaginario sia creato dalle narrazioni con cui entriamo in contatto è sempre più una teoria ben consolidata. Non è un caso che nel 2016 la Commissione parlamentare sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, abbia elaborato una piramide in cui la base, che sostiene e rende possibile l’avverarsi di quegli atti di violenza estrema contenuti nella punta, è costituita da stereotipi, rappresentazioni false e linguaggio ostile.

Discorso pubblico e false rappresentazioni: dal 2008 a oggi
Nel 2008, sotto il Governo Berlusconi, veniva approvato il “pacchetto sicurezza Maroni” che riportava al centro del dibattito pubblico e dell’azione politica in materia di immigrazione questioni relative a irregolarità ed espulsione, un processo di stigmatizzazione cominciato dall’approvazione della legge Turco-Napolitano un decennio prima. Rendendo più difficile l’immigrazione e la stabilizzazione in Italia e introducendo il reato di immigrazione clandestina, il pacchetto sicurezza contribuiva così a consolidare nell’immaginario collettivo, oltre che politico, un nuovo “status” – quello di “clandestino” – stravolgendo il senso originario della parola e agganciandolo indebitamente al concetto di criminalità. Ma se si percorre l’arco temporale che dal 2008 arriva fino all’oggi, possiamo rintracciare nel linguaggio intorno alla migrazione un minimo comun denominatore: la narrazione in termini securitari e emergenziali della migrazione, infatti, non ha mai ceduto il passo a un linguaggio che rendesse conto della complessità e strutturalità del fenomeno. Così, “Lampedusa” era una delle parole più diffuse nei media nel 2013 in una cornice di crisi umanitaria; nel 2019, la terminologia della barriera e del muro è quella più utilizzata secondo il X rapporto di Carta di Roma 2013-2022; “minaccia”, “invasione”, “clandestino”, “scafista”: sono alcune delle parole che più campeggiano sui titoli di giornale e nei discorsi politici in questo arco temporale, fino ad arrivare alla teoria del complotto razzista della “sostituzione etnica” paventata dall’attuale Ministro dell’Agricoltura Lollobrigida. Ne “La lingua che cambia” la linguista Manuela Manera ci ricorda che le parole non hanno solo funzione descrittiva ma veicolano idee sulla società e sulle relazioni tra i soggetti. Non a caso, secondo l’indagine Ciak MigrAction di Ipsos condotta nel 2020, la percezione del fenomeno migratorio è sovrastimata dagli italiani di più di tre volte rispetto al dato reale (31% il dato percepito rispetto al 9% dei dati Istat).

Nuove grammatiche: decolonialità e interesezionalità
Questa forza delle parole di interpretare la realtà e strutturarla nella nostra percezione può però anche indirizzare verso una trasformazione positiva: le parole possono riflettere un cambiamento di mentalità e al tempo stesso sostenerlo. È quello che sembra succedere negli ultimi anni, grazie a artisti, cantanti, scrittori e scrittrici, rappresentanti della politica con background migratorio e di nuova generazione, dalla cui presa di parola nuovi termini e nuovi immaginari stanno emergendo dall’invisibilizzazione. In questo scenario, le lenti dell’intersezionalità e della decolonialità sono individuate come strumenti linguistici e concettuali che permettono di dare conto della complessità e delle asimmetrie di potere nella nostra società. “Un’altra grammatica è necessaria per capire dove siamo ora, visualizzare la situazione nel sistema-mondo e immaginare scenari diversi a cui tendere. Questa grammatica c’è e si chiama teoria/pensiero/critica/approccio decoloniale” scrive a proposito Rachele Borghi in “Decolonialità e privilegio”. “Decolonialità”, un termine ancora poco usato nel dibattito pubblico, non rende conto solo del processo storico di decolonizzazione, ma ci obbliga a porre lo sguardo e ad agire sulla profonda e non elaborata radice coloniale della nostra società, a partire dalla nostra formazione, oltre che sul concetto di bianchezza e privilegio, ponendosi in ascolto delle persone razzializzate. Una seconda importante lente è quella dell’intersezionalità, termine sempre più diffuso e spesso al centro di accesi dibattiti. Codificato nei primi anni ’90, anche se come contenuto esisteva già nella teoria femminista nera nordamericana, oggi l’intersezionalità è promossa come un approccio che permette di cogliere le connessioni che compongono la fitta rete di oppressioni dell’ingiustizia e della disuguaglianza sociale, nella convinzione che le diverse forme di discriminazione si stratificano e si rafforzano a vicenda e perciò richiedono di essere analizzate e affrontate simultaneamente. La lingua può essere un’arma quindi. Ma come scrive la giornalista e attivista Kübra Gümüsay in “Lingua e essere”: “La lingua può essere anche uno strumento. Può mostrarci nel buio della notte i riflessi della luna. La lingua può delimitare il nostro mondo, ma anche aprirlo all’infinito.”

 

Rispetto delle diversità contro i discorsi d’odio
La potenza del linguaggio e delle parole emerge chiaramente nel fenomeno dei discorsi d’odio che negli ultimi dieci anni ha assunto una dimensione impressionante, permeando vari segmenti della popolazione sia in termini di età che di condizione sociale e culturale e la cui diffusione viene facilitata dalla diffusione dei social media. Tra i tanti progetti dedicati alla prevenzione e al contrasto di questo fenomeno che COSPE ha realizzato, è oggi impegnato nel progetto “Effetto Farfalla” rivolto agli e alle adolescenti, una fascia di età molto sensibile ed esposta a messaggi verbalmente violenti, con contenuti d’odio e denigrazione. Il progetto, andando a rafforzare comportamenti positivi per contrastare le discriminazioni e promuovere il rispetto di tutte le diversità (genere, orientamento sessuale e identità di genere, origine etnica e nazionale, religione, disabilità), vuole generare un cambiamento significativo nelle relazioni reali e virtuali tra adolescenti.

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