“LA PRIMA NERA NELLA STANZA”

di Eleonora Camilli

E’ una delle voci più lucide del nostro tempo, scrittrice a cavallo tra due mondi: l’Italia, dove è nata e cresciuta e la Somalia, da cui la sua famiglia proviene. Con il suo ultimo libro, “Cassandra a Mogadiscio”, Igiaba Scego è entrata nella dozzina dello Strega. È la prima autrice nera, nella storia del pre¬mio, ad aver raggiunto questo traguardo. L’abbiamo incontrata a Roma e abbiamo parlato con lei dei retaggi coloniali nel nostro sguardo sulle migrazioni, di diritti e di narrazioni sbagliate.

In “Cassandra a Mogadiscio” Lei scrive “io amo l’italiano, è la lingua della mia intimità, è melodia, è soprattutto un’ancora di salvezza nel naufragio perpetuo della vita”. Poco dopo però ricorda che è stata anche la “lingua tirannica” dei colonizzatori. Che rapporto ha da scrittrice con l’italiano?

Nel libro rifletto molto sulla lingua italiana. Per una persona di origine somala, come me, l’italiano non è una lingua neutra, è una lingua legata a un passato coloniale. Quando l’italiano è approdato sulle coste somale lo ha fatto da colonizzatore. In questi anni ho spesso cercato di immaginare quale italiano sia arrivato lì: ho immaginato una lingua fatta di ordini, di violenza e volontà di sottomissione. Questo si evince anche da alcuni romanzi, tra cui “Tempo di uccidere” di Ennio Flaiano. Ho pensato a mio nonno, a cui ho dedicato molti pensieri nei miei libri, che lavorava per gli italiani durante il fascismo. Era un collaboratore, come tanti sotto il regime. Traduceva questa lingua di violenza, Ho pensato al suo malessere e a quello di persone come lui. Poi, negli anni l’italiano è tornato spesso in Somalia, anche per l’amministrazione fiduciaria, diventando altro: la lingua della scuola e del futuro. Per i miei fratelli e i miei cugini è la lingua del ricordo. Oggi penso all’italiano guardando alla pluralità di questa lingua che è fatta anche della mia scrittura e di quella dei colleghi e delle colleghe come Amir Issa, Djara Khan, Leila El Houssi. Nel libro ho messo i loro nomi accanto a Dante, Petrarca e Boccaccio perché fanno parte della letteratura, della tradizione e del canone, che non è solo bianco.

Dunque, per decolonizzare il linguaggio una strada potrebbe essere quella di favorire il pluralismo delle voci. In particolare di quegli autori che stanno ridisegnando la lingua a partire da uno sguardo diverso?

Questa è la strada, ma siamo molto indietro. Alla proclamazione della dozzina del premio Strega ho visto plasticamente questo gap tutto italiano: sono salita sul palco e non ero solo l’unica nera tra gli scrittori ma proprio l’unica nera nella sala, per parafrasare il titolo del libro di Nadeesha Uyangoda. Colleghi e colleghe, maestranze dell’editoria, tutti sono monocolore e spesso anche monoclasse. C’è poca mescolanza e poca curiosità. Anni fa, quando ho iniziato il mio percorso da scrittrice c’erano molte più persone che sperimentavano, c’era un po’ di fermento e case editrici piccole e medie si interessavano al fenomeno dando spazio. Oggi questo spazio si è ridotto e alcune voci sono sparite, alcuni libri sono diventati introvabili. Quelle poche voci nuove avrebbero bisogno di essere più curate e sostenute a livello editoriale. Invece ci si rende poco conto di cosa significhi avere una persona con background migratorio nel catalogo. Magari succede che ci chiedano di fare interviste “kamikaze” cioè politiche, strumentali e poco legate al nostro lavoro. Mentre l’attenzione alle nostre opere è limitata. C’è bisogno di apertura anche nel mondo dell’editoria, cercando non solo corpi che scrivano ma anche che traducano, che facciano editing. Ci vuole pluralità. Questo mondo spesso critica il razzismo, fa battaglie sociali ma il cambiamento dovrebbe partire dall’interno. Essere l’unica nera arrivata alla dozzina dello Strega nella storia di questo premio mi ha colpita. Ma ho pensato: forse sono qui non solo come Igiaba ma come corpo collettivo, in rappresentanza di una pluralità che nessuno vede ma c’è e che spero nel futuro sia più evidente.

Capita poi che i pochi che riescono a emergere rimangano vittima di quella che Lei stessa definisce una “segregazione tematica”, cioè la costrizione a parlare solo di pochi temi: razzismo, migrazioni, intercultura.

Nel mio ultimo libro mi sono presa molte libertà. Credo che il razzismo strutturale vada raccontato ma che sia interessante il modo in cui ognuno di noi cerca di farlo. Toni Morrison nella sua vita ha parlato quasi solo di razzismo strutturale perché essere delle persone nere porta a quello. In “Cassandra a Mogadiscio” non volevo restare intrappolata nel tema, ma far vedere quello che il razzismo mette fuori scena: l’intimità delle persone, l’amore, l’affetto. Nelle vicende geopolitiche del paese di origine o in quelle del paese di approdo, quello che manca nel racconto italiano è l’affettività. Io invece volevo far capire i problemi di una famiglia diasporica dall’interno, quello che i media semplificano con “problemi dei rifugiati”. Volevo evidenziare quella dimensione a cavallo tra vari mondi. I temi del razzismo e delle diaspore mi hanno sempre riguardato, sono il motivo per cui ho iniziato a scrivere. La letteratura, lo stile, la lingua permettono un dialogo globale sulla blackness. Il problema è come fare per non rimanerne intrappolati.

Un problema che esiste anche nel giornalismo: nelle redazioni ci sono pochissime persone non bianche. In Italia l’accesso ai professionisti con background migratorio è ancora molto limitato. Crede che sia uno dei problemi che influenza il racconto, spesso distorto, anche sul fenomeno delle migrazioni?

Nelle redazioni dei giornali non solo non ci sono persone con background migratorio, ma ci sono soprattutto uomini, quasi tutti di mezz’età. Questo incide moltissimo sulla narrazione dei media: si racconta quello che si ha in testa, il pregiudizio o il desiderio, più che la realtà dei fatti. Le notizie si dovrebbero discutere in una redazione in cui c’è un gruppo eterogeneo. Invece prevale l’omologazione, abbiamo anche un lessico sempre uguale, sembra quasi che siamo impantanati nelle sabbie mobili. Si usano solo parole ricorrenti: “problema”, “emergenza”, ma dopo quasi quarant’anni di immigrazione siamo ancora in emergenza? L’emergenza è forse l’Italia, un paese dove non si riesce a cambiare. Non abbiamo ancora una nuova legge sulla cittadinanza, c’è la Bossi- Fini che rallenta tutto… E poi questa parola: “migranti” che non fa capire niente. C’è bisogno di mescolanza. E poi mi chiedo: un ragazzo afro discendente non può raccontare la politica italiana? Perché deve parlare solo di razzismo e migrazione? Nel giornalismo, più che nell’editoria vedo un problema reale di cambiamento.

Abbiamo parlato della visione negativa della migrazione, che vede cioè il fenomeno solo come problema, un nemico da cui difendersi o un pericolo. L’altro sguardo speculare a questo è quello vittimizzante. Quanto è pericoloso anche questo punto di vista, e quale retaggio si porta dietro dal passato coloniale?

Mi scontro spesso con questo tipo di sguardo, che potremmo definire del white savior. È presente soprattutto a sinistra e non lo ritengo migliore di chi insulta. È un razzismo paternalista altrettanto difficile da sopportare e che porta con sé anche una forma di infantilizzazione dell’altro, uno sguardo dall’alto. Il razzismo strutturale non è legato al credo politico ma a pratiche di sottomissione dell’altro e in pochi ne sono esenti purtroppo. È molto fastidioso.

Venendo alla politica, che effetto le fa sentire ritornare a intervalli regolari concetti come “razza” o “sostituzione etnica”?

Credo che le polemiche italiane su questi temi siano solo armi di distrazione di massa per non parlare di cose pregnanti, come l’attuale situazione economica. Sulla migrazione ci si divide in tifoserie, buoni e cattivi. È molto stancante ma è soprattutto un gioco tra bianchi. Io guardo da fuori tutto questo. Alcune parole smascherano i cattivi, ma quello che mi fa male è che chi si dice buono non ha fatto niente per cambiare la situazione. Sento parlare del nostro corpo in un’arena politica ma so che non stanno parlando di noi.

“LA PRIMA NERA NELLA STANZA”
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