IRAN: SIAMO TUTTI COINVOLTI

di Luciana Borsatti

“Iran. Il tempo delle donne” è il titolo del nuovo libro di Luciana Borsatti, giornalista e autrice di altri due saggi sullo stesso Paese – “L’Iran al tempo di Trump” (2018-20) e l’“Iran al tempo di Biden” (2021). Ma in questa chiusura di un’ideale e non programmata trilogia, l’autrice si trova a scrivere di una nazione i cui destini non sono più condizionati dalla grande potenza statunitense (del resto in declino negli equilibri geopolitici della regione che si disegnano proprio in questi mesi) e nemmeno dai suoi presidenti maschi, ma che sembra entrata in una nuova epoca. Quella di un cambiamento endogeno trainato appunto dalle donne, che nella lotta contro le discriminazioni subite si fanno carico delle istanze di tutta la società, incarnando nello slogan di origine curda “Donna Vita Libertà” un’urgenza di riscatto sociale ed economico diffusa in vasti strati della popolazione e nelle minoranze etnico-religiose, e una rivendicazione di libertà personali e diritti civili negati a tutti, tranne che alle oligarchie al potere. Può dunque essere questo il senso della “rivoluzione” che i protagonisti e i sostenitori delle proteste avrebbero voluto già capace di abbattere la Repubblica Islamica, ma che ha comunque aperto brecce nel ceto politico e soprattutto nella società. Qui ha infatti innescato un processo di cambiamento culturale profondo rispetto ai valori patriarcali e misogini ancora diffusi nel Paese, e che contribuiscono a sostenere da 44 anni il suo attuale sistema di potere.
Riportando anche le voci di iraniani in patria e in Italia, e le opinioni non sempre scontate di alcuni analisti, il libro cerca di evitare gli eccessi di ottimismo sulla capacità di rottura politica della #IranRevolution- eccessi che hanno spesso accompagnato e influenzato le cronache delle proteste, anche per effetto del grande attivismo comunicativo di una diaspora che alla fine non è comunque riuscita a definire una piattaforma politica unitaria. E tenta di allargare lo sguardo alle dinamiche della società e del sistema politico iraniani, dove le opposizioni interne al Paese hanno aperto un dibattito di cui si è avuto scarsa eco all’estero. Riuscendo infine anche a includere – prima della stampa – un accenno a quell’intesa tra Iran e Arabia Saudita portata a termine dalla Cina il 10 marzo, dalle inevitabili ma ancora incerte ricadute interne sul popolo iraniano.
Pubblichiamo qui un brano dell’introduzione del volume.

E così, mentre in Iran una violenta repressione si abbatteva su giovani in molti casi nemmeno maggiorenni − feriti nelle strade, trascinati nelle carceri e alcuni anche impiccati nella scandalosa oscenità che ogni patibolo ovunque rappresenta −, anche noi eravamo coinvolti. E ci chiedevamo, e loro ci chiedevano, come avremmo potuto salvarli da quel massacro pur temuto fin dall’inizio e come sostenere la loro lotta per il diritto di ogni donna a essere pienamente se stessa, per il diritto di tutti alla vita e a una vita degna, per la libertà di un popolo intero dai dispotici anacronismi di una Repubblica Islamica che aveva tradito le promesse della rivoluzione del 1979, trasformandosi nello strumento di potere di un’oligarchia economica, militare e religiosa arroccata su se stessa, volutamente incapace di comprendere in quale direzione fosse intanto andato il suo popolo, e quale lingua ormai parlassero i suoi figli e i suoi nipoti. Non so se noi abbiamo trovato, o gli iraniani all’estero ci abbiano suggerito, le giuste risposte alla loro richiesta di sostegno e solidarietà. Ma se il diritto alla libertà è insopprimibile e radicale per ogni essere umano, se rivendicarlo è già rivoluzione per chi da troppo tempo se l’è visto negato, se il suo significato è tanto semplice quanto il suo valore è fondamentale, nulla è semplice quando si parla di Repubblica Islamica dell’Iran: nulla è semplice nelle sue dinamiche interne come nel suo contesto internazionale. Si tratta di un sistema violento e repressivo che si regge su un fondamento teocratico da una parte, ma che è anche costituito da un Parlamento e da un presidente eletti a suffragio universale dall’altra. La sua Costituzione afferma alti principi democratici che sono però smentiti da un codice civile e da uno penale che discriminano le donne nel matrimonio, nell’eredità e di fronte ai tribunali quando chiedono giustizia. Ma le donne iraniane sono anche il 60% della popolazione universitaria e possono mostrare una forza e una competenza straordinarie in ogni campo. Solo questi esempi dovrebbero bastare per intuire la complessità di un Paese moderno e tecnologicamente avanzato da una parte, e inchiodato al passato della sua particolare interpretazione dell’Islam politico dall’altra. Quanto al quadro internazionale, l’Iran è una potenza regionale che si sente legittima erede della tradizione dell’antico Impero persiano, e che rivendica l’indipendenza − guadagnata con la rivoluzione contro la monarchia dei Pahlavi del 1979 − da ogni potenza straniera che, come in passato, ne voglia controllare le risorse e condizionare i destini. Tuttavia questa indipendenza il governo iraniano la esercita in un contesto conflittuale, dove la diffusa presenza militare statunitense, in alleanza con Israele, induce Teheran a vivere una sindrome di accerchiamento. Sindrome che si traduce in assertive politiche di difesa regionali che concorrono a tenere alte le tensioni anche con alcuni Paesi vicini, e in un impiego del suo programma nucleare – sempre dichiarato come civile – come una leva contrattuale nel suo confronto con l’Occidente. L’interruzione di quel percorso di avvicinamento con gli USA e l’Europa che sembrava essersi aperto con l’accordo sul nucleare del 2015 – abbandonato unilateralmente dall’amministrazione Trump nel 2018 – ha poi aperto la strada a un riposizionamento verso est della Repubblica Islamica, spinta a guardare sempre di più a Mosca e a Pechino. L’invasione dell’Ucraina da parte dell’autocrate russo Vladimir Putin ha trasformato quel riposizionamento in una pericolosa deriva, con la fornitura di droni da guerra a Mosca e il rinsaldarsi dell’alleanza militare. Questa scelta di campo, insieme a un’ulteriore accelerazione dell’arricchimento dell’uranio e alla violenta repressione delle proteste in patria, ha semplicemente ridotto – almeno al momento in cui scriviamo – le possibilità di costruttiva interlocuzione diplomatica tra Teheran e l’Europa. Anche qui basta poco per capire come ogni cosa che si muova a Teheran o nei confronti di Teheran possa avere conseguenze non solo nel Paese, ma anche nel più vasto contesto regionale e internazionale. Non è un caso, del resto, che l’establishment ultraconservatore iraniano – quello che si è preso tutto il potere in questi ultimi anni – abbia guardato al grande movimento di protesta nato dalla morte di Mahsa Amini come a un complotto del nemico esterno, e abbia scelto – dopo qualche incertezza iniziale − la strada di una repressione divenuta di settimana in settimana più brutale. Salvo poi, con l’annuncio di una vasta ma selettiva amnistia, spianare in un clima meno teso la strada per una trionfale celebrazione dell’anniversario della rivoluzione del 1979.

Facebook
Twitter
LinkedIn
Pinterest