ECLETTICO. FABBRICA EUROPA VS FORTEZZA EUROPA

di PAMELA CIONI

Ho iniziato a 13 anni a fare teatro, mi ci ha accompagnato mia madre perché ero un ragazzo irrequieto che si annoiava subito”. Comincia così a parlare di sé Andrés Morte, catalano, oggi vicepresidente della “Fondazione Fabbrica Europa” e, in questa veste, anche animatore del progetto Juntarte di COSPE a Cuba. Da questi esordi precoci e – se vogliamo dirla tutta poco esaltanti – Andrès ha poi fatto una carriera e un percorso di vita incredibile: attore, produttore, direttore artistico, spaziando dal teatro contemporaneo a quello di strada fino al cinema. Ma soprattutto tante le esperienze all’estero: “Ho vissuto molto a Zurigo dove ho studiato etnolinguistica all’università e dove, negli anni ’80, con alcuni compagni abbiamo occupato da squatter uno spazio industriale trasformandolo in uno spazio artistico, la “Rote Fabrik”, ancora oggi molto attiva e molto nota”. Qui è nato anche il sodalizio con il leader della “Fura dels Baus” con cui ha lavorato per circa 4 anni al suo ritorno a Barcellona. “Dopo un po’ mi è stato offerto di dirigere il teatro municipale della città, il Teatro del “Mercat de les Flors”, che per me era più interessante in quel momento. Dopo 5 o 6 anni l’ho lasciato per un lavoro più cinematografico”. E anche in questo caso si è trattato per Morte di un salto nel Gotha del cinema: da Barcellona, dove nel frattempo aveva fondato anche la “Barcelona Film Commission” e la “Barcelona Film Festivals Platform”, è infatti arrivato direttamente a Santa Monica per lavorare con il “Sundance Institute” di Robert Redford. “Mi sono occupato a lungo di fare da collegamento tra giovani registi del Sudamerica e l’Istituto. Poi dopo un po’ di tempo che andavo e venivo tra Stati Uniti, Sudamerica e Spagna ho incontrato Maurizia Settembri, che conoscevo molto bene per la sua attività di manager di compagnie teatrali importanti, e con lei abbiamo fondato “Fabbrica Europa” alla stazione ferroviaria Leopolda di Firenze. È uno spazio incredibile, archeologicamente unico. Uno spazio nato per essere la sede di un festival, anche se Firenze è una città molto difficile per il teatro contemporaneo: per me Firenze è rimasta all’epoca di Machiavelli…” Nonostante questa lapidaria sintesi Andrés continua a lavorare in Italia, pur mantenendo i suoi progetti in Spagna e in molti altri Paesi: è attualmente docente presso la “Scuola Universitaria di Cinema e Comunicazione Visiva di Barcellona” ma anche mentore di diversi programmi culturali per l’Italia, l’Argentina, la Spagna, Hong Kong e Filippine, dove per 4 anni ha anche insegnato cinema. Una vita in viaggio, spesso in aereo, anche per questo dice: “Per me la cultura deve essere un rapporto di andata e ritorno. Non sono stato solo professore o coach, sono stato anche un vettore di conoscenza, di cultura di altri Paesi e io mi sono sempre arricchito molto grazie a tutte le persone e ai luoghi che ho conosciuto negli anni”.

A partire da questo tuo sguardo internazionale, secondo te qual è lo stato della cultura oggi? E, a fronte dei cambiamenti sociali ed economici portati dalla pandemia, il mondo della cultura come si pone e che cambiamento deve fare (o ha già fatto) per resistere e sopravvivere?

Secondo me oggi la cultura non ha niente da perdere. Come a poker: quando si gioca, si gioca tutto e si rischia tutto. Con questo voglio dire che la cultura ha una capacità di sopravvivenza molto grande. In questi momenti di crisi la cultura riesce sempre a sopravvivere e riconosce il rischio come elemento strutturale. Non c’è stata solo la crisi come quella portata dal Covid, sono sempre tempi difficili per la cultura. La cultura non trova mai finanziamenti e quindi è destinata sempre a “sopravvivere”; ma allo stesso tempo ci sono tanti elementi che la cultura non vedrà mai perduti: la resilienza e la capacità di “creazione” e di ripartire sempre. Se pensiamo al ‘68, era un momento difficile e una situazione politica altrettanto difficile. Era una Europa fascista, di destra. E in quel contesto la cultura ha creato un concetto di nuovo cinema, ha creato un nuovo teatro. Dopo il Covid immagino e spero che accadrà qualcosa del genere.

Proprio in questo periodo, durante la prima e la seconda ondata e con il lockdown, è emerso, almeno in Europa, quanto poco si tenga conto del lato economico della cultura. L’industria culturale non è avvertita come tale e il lato economico è considerato spesso secondario. Secondo te perché?

In generale non si capisce che la cultura appartiene alla società, è come se fosse ancora una cosa estranea. Se dici a tua mamma che vuoi essere medico e dottore va bene, se vuoi fare il circo no. La gente in generale ha un’idea negativa dei lavori legati alla cultura. E quindi l’aspetto economico non viene percepito. E più che altro il vero problema è che si sono perse le connessioni e i contatti con un pubblico reale, e senza questi la cultura diventa ancora una volta un ghetto, soldi o non soldi.

È esistito un momento in cui c’è stata più connessione secondo te?

Sì, prima c’era più connessione con la realtà, con la politica, con la società. In questo momento, ad esempio, chi lotta per l’ecologia e per un ambiente sociale è più connesso. Oggi sono più connessi con la realtà sociale loro che il teatro. Questa è una cosa su cui pensare. Abbiamo perso la nostra identità sociale.

Cosa fare adesso? I progetti che stiamo seguendo insieme a “Fabbrica Europa” a Cuba, credo vadano in questo senso, sebbene siano gocce nel mare.

Sì, credo che questo lavoro che facciamo a Cuba sia molto importante. Ma c’è molta differenza tra Cuba, l’America Latina in generale, dove ho molta esperienza, e l’Europa. Loro hanno molta voglia di imparare, di sapere. La cultura in questi Paesi ha una potenza incredibile. Qui in Europa abbiamo un po’ perso il contatto con noi stessi. Voglio dire “Dove siamo? Cosa possiamo fare per essere più attivi verso i bisogni della società?”. La cultura è l’elemento fondamentale dello sviluppo civile. Se stiamo parlando di economia umana, di ricerca, di connessione sociale, dobbiamo esser molto combattivi per essere creduti. In questo momento penso che la cultura abbia un problema di identità e non di creatività. Dobbiamo sapere dove siamo e come da qui possiamo promuovere una partecipazione più attiva sulla società.

Quindi tu vedi nell’arte e nella cultura una missione da recuperare nei confronti del pubblico e della società?

Sì, io penso di sì. Uno scrittore diceva “Non esiste libro, se non esiste lettore”. Il libro esiste nel momento in cui il lettore inizia a leggere queste pagine. Noi dobbiamo fare lo stesso. Non esiste cultura, identità, industria creativa e culturale se non abbiamo un pubblico e quando dico pubblico intendo un pubblico enorme che ci guarda, che ci segue, che viene. I teatri oggi sono vuoti. A danza vengono 100 persone. Non è possibile dire che va bene così. Non voglio essere pessimista ma faccio una riflessione che difende e promuove l’idea di una cultura più sociale, più vicina al pubblico e alle persone.

E forse il momento attuale può paradossalmente essere favorevole per questo.

Su questo sono d’accordo perché porterà un elemento di riflessione e di scambio più profondo.

Stai per partire per l’Avana dove lavorerai con tanti giovani artisti cubani grazie al progetto che vede la collaborazione tra COSPE e “Fabbrica Europa”. Nell’isola è anche un momento di particolare crisi economica e sociale, dopo le proteste di quest’estate. Cosa ne pensi, cosa ti aspetti?

Cuba, lo dico con amore, è un po’ schizofrenica: da una parte c’è il mondo politico, dall’altra quello umano. Come persone hanno una grande volontà di crescere e posso dire che Cuba con il suo piccolo territorio è una delle più grandi potenze
culturali: cinema, danza classica, danza contemporanea interessante, artisti visuali. Fanno cose molto interessanti ma non hanno soldi per venire in Europa o noi non li abbiamo per invitarli a venire qui.

E gli artisti possono essere d’aiuto per tentare di sciogliere questa crisi all’interno del Paese? Che ruolo potrebbero avere?

Possono nel futuro avere il ruolo di trovare un certo equilibrio tra due mondi che sono sempre in una situazione di contrasto. La cultura cubana non permetterà una guerra civile. La cultura cubana è in una costante situazione di dialogo tra artisti e istituzioni, tra artisti locali e mondo esterno. Ai cubani manca la possibilità di uscire e poter trovare uno spazio di scambio. Il problema è anche che l’Europa è cosi chiusa e ha così tanta paura degli stranieri. Noi artisti, e voi come cooperazione, facciamo uno sforzo per andare là ma io vorrei più scambio: questo è fondamentale per l’Europa e se continuiamo a rimanere chiusi in un paradiso che non è un paradiso perderemo la nostra visione del mondo e la possibilità di arricchirci culturalmente e spiritualmente.

Denisse Alejo Rojo

JUNTARTE
”Juntarte“ è un progetto di collaborazione internazionale innovativo, inclusivo e sostenibile che si sviluppa nel campo delle arti dello spettacolo a Cuba. È cofinanziato dall’Unione Europea e co-diretto dall’“Associazione Hermanos Saíz” (Ahs) e da COSPE con il sostegno del “Centro Oscar Arnulfo Romero” (Oar), della “Fondazione Italiana Fabbrica Europa per le Arti Contemporanee”, del Ministero della Cultura e delle sue istituzioni. Il progetto nasce con l’obiettivo di promuovere un’economia della cultura innovativa, tenendo conto dei diversi anelli della catena del valore delle arti performative: creazione artistica, produzione, esposizione, mercato/ consumo, e di contribuire a rafforzare il ruolo della cultura come asse di sviluppo sostenibile, globale e inclusivo del Paese.

 

Foto in copertina: Denisse Alejo Rojo

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