di ANNA MELI
Quello che dobbiamo fare è partire comunque, e con proposte anche nuove.
Daniela Morozzi su un palco, in tv o sulle barricate, sempre schierata per l’impegno civile
La incontro nella sua casa, accogliente e avvolgente come lei. Ha da poco subito un’operazione al ginocchio ed è costretta a muoversi con stampella e sta- re seduta ma parlare con lei è sempre un viaggio, nella vorticosa esperienza dei suoi progetti presenti e futuri, nelle sue acute riflessioni sulla società e la politica, sugli aneddoti di vita quotidiana. “Ma lo sai che in ospedale mi venivano a cercare per gli autografi anche quando ero in mutande?” . Attrice poliedrica, Daniela Morozzi, ha iniziato a recitare nel mondo del cinema nel 1996 prendendo parte al film “Ritorno a casa Gori” a cui sono seguiti due film del regista Paolo Virzì, “Ovosodo” e “Baci e abbracci”. Molti ruoli del piccolo schermo televisivo, dall’indimenticabile ruolo di Vittoria Guerra, l’amatissima agente in “Distretto di Polizia” alla più recente serie tv “La fuggitiva” in cui ha vestito i panni di Suor Donata. Ma Daniela è stata rubata al teatro dell’improvvisazione. Nel 1988 è entrata a far parte della Lega Italiana Improvvisazione Teatrale (Liit), prima come attrice e poi come insegnante e direttrice artistica. La folgorazione durante gli anni delle superiori. “Volevo fare lingue ma allora era una scuola privata e per mio padre, di sinistra come tutta la mia famiglia, esisteva solo la scuola pubblica. Feci il Marco Polo, corsi di teatro, cinema e fotografia con il Consiglio d’Istituto e frequenta il primo corso di teatro. “Io non ho mai avuto un dubbio, nemmeno da piccola. Ho sempre voluto fare questo. Certo è che la politica era una parte importante, un elemento fondamentale”.
Da dove nasce la tua passione politica?
Dalla mia famiglia, una famiglia contadina. Siamo tantissimi. Fino a 15-16 anni vivevamo in 12 in casa. Era una famiglia operaia ed io con la mia scelta di studiare e occuparmi di teatro proponevo un’alternativa a questo e al lavoro fisso. Però credo che il fatto che la casa fosse sempre aperta, che mia mamma fosse un’infermiera con un’etica del lavoro attenta verso l’altro abbiano segnato il mio percorso professionale e umano. La cultura contadina può produrre chiusura ma non nel mio caso. La passione per la politica credo sia più un sentimento che ragione. Con la scuola gli ho dato voce.
E poi la scelta del teatro, della recitazione. C’è stato un attimo, da ragazza, che mi son detta che forse avrei potuto far politica. Son sempre stata di sinistra. Poi è partito il teatro insieme all’attività più culturale e artistica ma la dimensione politica è sempre rimasta presente sempre. Ad esempio, “Distretto di polizia” che era una serie super istituzionale è stata anche la prima con un poliziotto omosessuale e 15-16 anni fa non era così semplice affrontare questo argomento e fu infatti dirompente. Noi avevamo una grande attenzione su quello che raccontavamo nella fiction. Eravamo attenti che quello che passasse fosse l’idea condivisa di una polizia democratica e non repressiva. D’altronde io non riesco a immaginare il mio lavoro diversamente.
Dopo il successo di “Distretto di Polizia”, una pausa ma subito dopo l’attivismo per i diritti delle donne e da lì molti spettacoli e iniziative di impegno civile.
Io avevo una crisi molto forte dopo “Distretto di polizia” che avevo scelto di non fare più e di prendermi una pausa. Sono venuta a Firenze e in quegli anni nasceva il movimento “Se non ora quando”. È stata Annamaria Romano (ndr, ora International Policy Coordinator alla Cgil) a chiamarmi. Da lì è partito il mio impegno specifico sul genere, l’impegno che è diventato anche spettacolo con “Articolo femminile, analisi illogica della carta stampata”. Io amo la parola giornalistica. Il giornalismo bello è per me paragonabile alla grande letteratura perché la capacità di sintesi, di immagini, di cogliere i momenti, così come il lavoro di indagine e ricerca, unito al saper scrivere, permette di raggiungere delle vette notevoli”. Dalla ricerca tra parola e musica nascono poi numerosi altri spettacoli di successo come “Riccardo III, suite per banda e voce recitante”, “Mangiare Bere, Dormire – storie di badanti e badati”, con la cantante Maria Grazia Campus e “Io, John Coltrane”, che la vede in scena con i musicisti StefanO Cocco Cantini e Ares Tavolazzi. Instancabile protagonista della scena culturale costituisce con Irene Biemmi, ricercatrice esperta di questioni di genere in ambito educativo, l’Associazione Rosaceleste con cui si occupa di sessismo nelle scuole presentando in scuole, convegni, teatri progetti articolati di formazione e la conferenza- spettacolo “Rosaceleste – ancora dalla parte delle bambine e dei bambini”. A gennaio 2020 aveva debuttato il suo spettacolo “Da consumarsi preferibilmente in equilibrio”, un monologo divertente e commovente, con riflessioni a tratti esilaranti ma anche premonitrici, come afferma Daniela, di quando corri, corri e non pensi.
Come hai vissuto il periodo della pandemia, delle chiusure?
Ci sono persone che hanno ritrovato dimensioni interne. Per me è stato terribile. Quello che stava accadendo intorno era per me più forte di qualsiasi cosa. Un po’ l’incomprensione, un po’ la perdita del lavoro immediato. Avevo tante date, una fiction in corso e tutto si era fermato. Poi c’erano i morti. C’era un conteggio giornaliero spietato che è partito da lontano ed è diventato sempre più vicino, fino a quando ha toccato persone che conosci e i loro cari. Non riuscivo a rilassarmi, a leggere un libro. Nello spettacolo “Da consumarsi preferibilmente in equilibrio” c’è un invito finale a fermarsi. Qualcosa doveva accadere Lo sapevamo. Non era più possibile vivere con quel livello di stress, abuso e violenza su di noi e sul pianeta. Io credo che oggi, che siamo ancora dentro questa pandemia, siamo però più consapevoli. Consapevoli che non si può tornare indietro. Siamo di nuovo di fretta ma noi non siamo più gli stessi. Fai le cose ma non ti appagano e rinunci ma non hai ancora gli strumenti necessari per sostituirli. Siamo in una sorta di terra di mezzo.
La pandemia ha anche messo a nudo la precarietà in cui vivono i lavoratori del mondo dello spettacolo
Il Covid ha messo in evidenza che gran parte del mondo dello spettacolo è oltre il precariato, persone con lavori in nero o sotto sfruttamento, un grande dislivello tra le organizzazioni e i piccoli teatri, la sordità delle amministrazioni che fanno cultura e le associazioni. Il dare soldi a pioggia senza progettualità. Bisogna ripensare la cultura. Questa parola diventa vuota altrimenti. La chiusura di teatri, cinema, circoli e presidi vari aveva un senso fino a un certo punto. Con Ikea aperta, vie dello shopping affollate ecc., mentre noi no. Davanti ai teatri chiusi e tutto che si muoveva, un giorno insieme ad Anna (Meacci, ndr) non riuscivo più a seguire le regole e ci siam detti facciamo una tournée leggendo “Le ragazze di San Frediano”. Abbiamo iniziato a immaginare di andare per le strade, di fronte ai posti chiusi e dire: “lì c’è qualcosa”. La risposta è stata straordinaria, prima al Puccini sotto la pioggia con tantissime persone davanti e poi anche in zona gialla, avevamo deciso di annullare il momento davanti al Teatro del Cestello e invece c’era la gente senza di noi, anche la volta dopo. Penso che le persone siano pronte
al cambiamento ma la politica non ha forza visionaria di capire.
Come ti immagini la ripartenza culturale?
Quello che dobbiamo fare è partire comunque, al di là della risposta delle istituzioni, e con proposte anche nuove. Fare questo mestiere vuol dire anche immaginare e saper immaginare il cambiamento prima di attuarlo. Questo è quello che possiamo fare. Aiutare a immaginare il cambiamento. Dobbiamo riuscire a mischiarci con i giovani, invadere la città, coinvolgere la cittadinanza. Il teatro deve tornare a essere una piazza, dove dentro accadono cose che vanno oltre lo spettacolo. Si deve creare un patto nuovo con il pubblico perché noi eravamo arrivati al punto che i cartelloni teatrali si facevano sui nomi e non sui titoli. Nessuno rischiava più. A Firenze negli anni Ottanta nascevano club, indipendentemente da Comuni o
bandi. Non ci sono soldi oggi perché non c’è pubblico. Ma i giovani? I giovani sono a destra in questo Paese o sono su grandi temi, come l’ambiente. Politicamente sono assenti. Sono assenti anche culturalmente. Sono molto virtuali e non possiamo negare il loro linguaggio. Dobbiamo trovare un modo per mescolarli. Dovremmo creare un’arca di Noé culturale e diventare delle scorte culturali. In questo momento ce n’è bisogno. Oggi va di moda usare la parola resilienza ma non so quanto è corretta, manca l’atto trasformativo. Sento che qualcosa non va bene. Non contiene una trasformazione o cambiamento. Le cose accadono se le facciamo accadere. “Le ragazze di San Frediano” lo lego alle ragazze di Kabul perchè credo che quel piccolo palco può diventare una sede dove accadono delle cose. L’informazione e il mondo della cultura non possono più essere un mordi e fuggi
LE RAGAZZE DI SAN FREDIANO PER LE RAGAZZE DI KABUL
Daniela Morozzi, Anna Meacci e Chiara Riondino hanno dedicato il debutto del loro spettacolo “Le ragazze di San Frediano”, letture e musiche dal romanzo di Pratolini, alla campagna Emergenza Afghanistan di COSPE. Il 2 settembre 2021, a ridosso dell’arrivo in Italia delle 42 persone evacuate con COSPE, Daniela e le altre attrici hanno infatti ospitato COSPE all’Arena Ultravox di Firenze e destinato il chachet della serata alla campagna. Il loro impegno è continuato con le repliche autunnali dello spettacolo, ospitando alcune famiglie afghane e le calciatrici di Herat il 17 e il 18 novembre al Teatro Puccini di Firenze.