Liberti: pochi fazendeiros e cinque multinazionali si sono spartiti Mato Grosso e Amazzonia.
Durante il webinar organizzato da COSPE nelle scorse settimane in cui si è cercato di affrontare l’impatto della pandemia Covid-19 su persone, comunità e territori in ogni angolo del pianeta in cui operiamo, un’attenzione particolare è dedicata alle popolazioni che vivono nell’area amazzonica, fra quelle che stanno pagando il prezzo più alto. Il seminario è stata l’occasione per ascoltare la testimonianza di Stefano Liberti, giornalista e autore, che conosce molto bene il Brasile, perché qui ha svolto alcune delle sue inchieste più interessanti per “Internazionale” e per il suo film “Soyalism”, sugli interessi dell’agrobusinnes e sull’impatto ambientale che questo ha su territori e popolazioni. “Negli ultimi anni sono andato varie volte in Brasile e devo dire quello che ho visto è con quale velocità incredibile è cambiato quell’ambiente e quell’ecosistema negli ultimi quarant’anni. Perché tanto si parla della foresta amazzonica, che è in pericolo, che viene deforestata, tanto poco si parla di quello che è accaduto nel Mato Grosso che era un ecosistema molto ricco, in cui ora non c’è più un albero, sostanzialmente tutto è stato raso al suolo, ed è sostituito da grandi pascoli estensivi e da gigantesche monocolture di soia negli anni 80. In quegli anni è cominciato un enorme consumo di carne, prima in Occidente e poi successivamente anche in Cina e quindi è aumentato a dismisura la richiesta di semi proteici, in particolare di soia, destinata ai grandi allevamenti intensivi. Noi spesso pensiamo alla soia come un alimento che viene utilizzato nelle diete vegetariane, in realtà la gran parte di essa (il 70% di quella prodotta in tutto il mondo) è prodotta negli Stati Uniti, Brasile, Argentina, Uruguay, Bolivia per la zootecnica, come componente fondamentale per i mangimi animali. E questa enorme richiesta di carne che proviene da tutto il mondo è alla base di questa crescita incredibile della produzione di soia, che ha divorato enormi porzioni di terra in particolare in Sudamerica. Dal 1960 ad oggi l’aumento del grano o del riso è di circa tre volte, mentre l’aumento della soia è di circa 15 volte. Quando vai in queste zone, in particolare nello stato del Paranà, si vede che quello che avevamo già visto in passato si prefigura come il futuro delle regioni più a nord, in Amazzonia, dove c’è una fortissima tensione, c’è uno scontro, ma anche una grossa quantità di mezzi che sono stati messi in campo per espandere questa frontiera. I protagonisti di questo processo sono da un lato i fazendeiros, che sono grandi proprietari terrieri, e cinque grandi multinazionali internazionali che gestiscono questo grande business della soia in un regime veramente di oligopolio. Ad esempio, a San Teren, dove c’è un ramo del Rio delle Amazzoni, è stato costruito un porto dalla Kargik, una grande multinazionale americana: un porto privato costruito senza nessuna autorizzazione delle autorità locali che serve solo a esportare la soia che viene prodotta nel circondario. Praticamente questa multinazionale opera lì come se fosse sostanzialmente a casa propria, con enormi quantità di soia che vengono caricate su grandi navi container, e poi attraversavano il fiume, prendono la strada dell’Atlantico e da lì vanno in Europa ed in Cina. Ecco tutto questo ci riguarda, perché quell’enorme consumo di carne e gli allevamenti intensivi che anche noi abbiamo, non potrebbero esistere senza quelle grandi monocolture. Noi ogni anno importiamo tre milioni e mezzo di tonnellate di soia che poi vengono trasformate e fanno parte dei nostri mangimi. Ecco allora, quando guardiamo la foresta amazzonica che viene bruciata, dobbiamo anche capire che la cosa ci riguarda da vicino, perché riguarda il nostro modo di produrre e soprattutto di consumare. Io penso che tutti noi dovremmo interrogarci e forse ridurre il consumo di carne industriale, perché quel tipo di consumo ha dei costi ambientali che forse non ci possiamo più tanto permettere”.
Intervista a Stefano Liberti raccolta da Jonathan Ferramola