La vita, l’arte e l’impegno. Una cosa sola.

Lei è un attore, scrittore, cantante, un artista ebreo. Che influenza ha la cultura ebraica nella sua produzione artistica?

Ha avuto un’influenza decisiva; però io sono un ebreo della diaspora, proprio: non mi sono mai occupato di cultura israeliana. Credo all’esilio come condizione per tutti gli uomini. Noi tutti vivremo in pace solo quando vivremo da stranieri tra gli stranieri. Questa è la mia profondissima convinzione. Sono rigorosamente antinazionalista, e considero il nazionalismo come una delle più grandi pestilenze della storia dell’uomo; figuriamoci se posso accettare un nazionalismo ebraico. Non sono mai stato sionista e da alcuni anni mi dichiaro antisionista. Quindi, io sono un ebreo della diaspora molto legato alla cultura, alla spiritualità ebraica, in particolare alla cultura yiddish: la cultura degli ebrei del centro-est Europa. Gli ebrei dell’esilio, sempre. Non ho mai provato interesse per la cultura israeliana, anche se ho letto i grandi scrittori israeliani, che ci sono. Ecco, questa è la mia principale condizione esistenziale, e anche il mio impegno. Sono profondamente convinto che esista su questa terra un solo uomo, e spero, prima di morire, di poter vedere che venga emanato un passaporto in cui ci sia scritto “abitante del pianeta terra, nato e vivente a…”.

Ha usato la parola “impegno”, che è molto presente nella sua produzione artistica.

Certo, non solo come artista. Ho cominciato prima come persona, con la militanza per i diritti e la giustizia sociale, a 14 anni, e da lì non ho mai interrotto la mia militanza. C’è stato un periodo in cui ho partecipato anche alle vicende elettorali, ma oramai sono diversi anni che io non credo più a questa pseudo-democrazia falsa, un simulacro, e quindi mi impegno con i gruppi sociali, mi impegno con i movimenti. Di solito, il pubblico che viene a seguirmi reagisce sempre con grande favore nei miei confronti: anche le persone che non la pensano come me. Ci sono tantissime persone che mi rispettano per la mia coerenza e per il mio rigore, per non avere padroni né condizionamenti.

In questo momento, il mio massimo impegno è per la difesa dei diritti del popolo palestinese, per il riconoscimento del suo stato di nazione, di popolo, per la sua libertà e la fine della sua oppressione. Considero che la vicenda del popolo palestinese sia la più scandalosa alla quale io abbia mai assistito, e alla quale mi sia dedicato come militante.

Ecco, il suo impegno per la difesa dei diritti dei palestinesi, a livello personale le ha riservato conseguenze nel tempo?

Io ho rotto i rapporti con le comunità ebraiche, oramai sono considerato il demonio: ho avuto maledizioni, insulti, minacce, ma ho proseguito indefesso. Ciò ha portato anche conseguenze sul mio lavoro: hanno cercato di boicottarmi in tutti i modi possibili…. Ma ripeto: io sono un attivista, avessi vissuto anni fa sarei stato un rivoluzionario. Su questa cosa non transigo, e nei miei lavori ci sono sempre un investimento e un retroterra ispirati a valori culturali, a idealità solide e al concetto fondamentale di giustizia sociale e di uguaglianza. Anche dopo gli eventi del 7 ottobre, le mie prese di posizione sono state molto apprezzate da chi mi segue. La mia posizione è stata anche piuttosto dura, perché ho scritto e fatto interviste in cui ho detto che questo è il risultato a cui ha portato la politica oppressiva e razzista del governo israeliano. Sono stato anche molto rimproverato per questo, ma ho dovuto avere queste parole.

Lo scorso settembre ha avuto modo di incontrare la compagnia Theatre Day Production di Gaza, qui a Firenze, in occasione delle iniziative per i 40 anni di Cospe. Un ricordo di questo incontro?

L’ho vissuto guardando la straordinaria vitalità e freschezza di questi artisti palestinesi. Del resto, io ho tanti amici artisti palestinesi. Un mio grande amico è Mohamed Bakri, il grande attore e regista. Poi sostengo particolarmente il musicista Ramzi Aburedwan, che ha fondato una scuola per insegnare la musica ai bambini dei campi profughi palestinesi. Ramzi, quando aveva 9 anni, è stato il bambino che ha tirato la prima pietra dell’intifada delle pietre.

Quindi ciò che ho notato nei giovani del Theatre Day Production è una grande grazia, una freschezza, un entusiasmo che li guida, che sono un ammaestramento, perché per loro il teatro è uno strumento di affermazione identitaria, di resistenza, di lotta. Una delle caratteristiche dell’aggressione sionista è di negare un’identità al popolo palestinese e ai palestinesi come persone. Quindi ho notato che il loro teatro ha una forza di reazione, di vitalità, veramente, profondamente toccante.

Purtroppo, nella guerra a Gaza il teatro è stato bombardato, un professore del teatro è stato ammazzato e tutti gli attori e le attrici adesso sono rifugiati a sud, dove però, attraverso laboratori teatrali, stanno dando un sostegno psicologico a donne e bambini che soffrono il trauma di questa guerra, in aggiunta a tutta quella che è la sofferenza quotidiana a Gaza. Che ruolo l’arte può avere nei contesti di guerra?

L’arte e la cultura, in tutti i contesti, hanno un valore fondamentale, e in questi contesti di guerra diventano ancora più fondamentali. C’è l’urgenza di esprimere idee, ideali, sentimenti di lotta, con il teatro. Il teatro è sempre stato fatto anche sotto i bombardamenti, anche nella seconda guerra mondiale, anche nei campi di concentramento nazisti: è sempre stato fatto teatro. Allora, anche oggi, il teatro, la musica, la danza, le arti scenico-performative rappresentano una grande opportunità per il popolo palestinese, e avranno anche in futuro lo scopo di dare all’identità palestinese un profilo forte, articolato, ricco… Questa ricchezza c’è, e continuerà a contribuire alla formazione dell’identità palestinese.

Come valuta le posizioni degli intellettuali e degli artisti italiani, che pure si sono espressi per il cessare il fuoco a Gaza e per un cambiamento nelle politiche internazionali e di Israele? Che ruolo possono giocare l’arte e la società civile?

Ogni gesto di militanza, di sostegno, di partecipazione è importante. Però ci si deve preparare a una lotta molto lunga, perché forse l’intensità della violenza in corso pian piano potrà ridursi, ma lo stato di Israele, finché non c’è un cambiamento radicale, tenterà in tutti i modi di rifiutare l’idea di uno stato palestinese, e soprattutto di rifiutare l’unica vera possibilità di una soluzione fondata sulla giustizia e sulla vera pace, non sulla pacificazione: cioè uno stato binazionale, democratico, laico. Sarà una lunga lotta che comprenderà diversi lustri, non illudiamoci che questa cosa finirà presto. Io ho cominciato la militanza al fianco del popolo palestinese molti anni fa: eravamo veramente in pochi, e dopo la morte di Rabin siamo stati molto soli, boicottati in tutti i modi. Magari chiedevamo di avere un’aula per fare un incontro sulla questione israelo-palestinese, ci promettevano un’aula universitaria e ce la levavano il giorno prima… Siamo stati boicottati in ogni modo, perché i nostri politici, con pochissime eccezioni, essendo atlantisti e accettando il ruolo di camerieri degli Stati Uniti d’America, conseguentemente tacciono su quella che è stata la ultra settantennale oppressione del popolo palestinese. Per ogni palestinese, anche la vita quotidiana, anche una corsa in bicicletta, è sempre problematica: hanno subito violenze, oppressioni, uccisioni, torture, arresti arbitrari; i loro bambini sono stati privati di ciò che spetta ai bimbi, e così per le donne, i vecchi. Per esempio, io penso ininterrottamente a questo: cosa succederà ai bambini che sopravviveranno e che hanno vissuto queste esperienze? Avranno incubi la notte, avranno sogni disturbati, la loro crescita sarà faticosa, a volte terribilmente faticosa…Tutti noi che sosteniamo il popolo palestinese dobbiamo continuare con un impegno diuturno. Questo è il mio appello: non mollare mai, fino a quando il popolo palestinese non avrà riconosciuto ogni suo diritto.

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