di Anna Meli
La strada l’avevamo tracciata già all’inizio degli anni ’90. L’Italia era già meticcia, anche da molto prima, come ci ricordano spesso scrittrici e intellettuali come Igiaba Scego, Ubah Cristina Ali Farah e molte altre ma lo sguardo paternalista e coloniale era pervasivo. I figli di immigrati crescevano e si formavano allora come adesso nelle scuole e i luoghi di lavoro, le città si misuravano con esigenze e prospettive interculturali. La Carta di Roma, il codice deontologico su migranti, richiedenti asilo e rifugiati, non era ancora stato stilato e l’associazione sarebbe nata un decennio dopo.
Insieme ad un nutrito gruppo di giornaliste e giornalisti di origine straniera COSPE denunciava da un lato una rappresentazione stereotipata e troppo parziale dell’immigrazione sui media, e dall’altra provava a sostenere il protagonismo diretto: insieme alla rete dei Media Multiculturali e all’Associazione Nazionale Stampa Interculturale, chiedevamo di aprire le redazioni ad altre competenze linguistiche e culturali consapevoli che il pluralismo informativo dovesse includere prospettive diverse. A distanza di quasi 20 anni i media multiculturali sono stati sostituiti dai social e dall’informazione online molto concentrata a fornire informazioni utili e di servizio ai nuovi arrivati. I media cosiddetti a larga diffusione sono ancora poco pluralisti. È cresciuto il numero di giornaliste e giornalisti figli di immigrati che compongono le redazioni ma ancora troppo poco rispetto alle esigenze di rappresentatività della società. Nel libro del 2016 “Europa Media Diversità. Idee e proposte per lo scenario italiano” curato da me per Associazione Carta di Roma, si rilevava come i media europei a partire dai servizi radio televisivi pubblici avessero assunto il tema della diversità come “policy” interna già da alcuni anni. Pubblici sempre più differenziati per età, genere, ma anche per orientamento sessuale, origine nazionale e condizione di disabilità venivano e vengono considerati target interessanti per le emittenti tv e i media europei. In Italia invece era e spesso lo è ancora vissuta come una concessione caritatevole di spazi e attenzione, e non come opportunità di sviluppo di nuova creatività oltre che come esigenza di mercato. Molti gruppi editoriali anche privati in Europa hanno investito e investono in iniziative che mirano ad attrarre sia nuovi spettatori o lettori, spinti anche dalle richieste del mercato pubblicitario che già ha compreso da tempo le esigenze degli infoconsumatori di varia provenienza.
TF1 e France Television, hanno politiche specifiche sulla diversità portate avanti da uffici o responsabili che rispondono direttamente ai consigli di amministrazione delle aziende, così come accade in Olanda, Gran Bretagna, Svezia e anche nella giovane Croazia. Mentre a France Tv hanno puntato molto sul rapporto con le scuole di giornalismo. «Impegnarsi per le pari opportunità deve essere qualcosa che fa parte del dna di un’azienda di servizio pubblico come la nostra», dichiarava Stephane Bijoux, responsabile per la diversità al Festival del Giornalismo di Perugia nel 2017.
In Italia invece continuano a permanere ingessature di carattere culturale, alimentate da un discorso politico razzista e anacronistico. Nel nostro paese c’è ancora un’ottica assistenziale e meramente filantropica che soffoca l’ambito della diversità come motore di sviluppo. Nel rapporto Vision 2020 di European Broadcasting Union (Ebu), il network dei media di servizio pubblico che comprende 56 paesi, si sottolinea più volte il contributo in termini di creatività e innovazione che politiche per la diversità possono svolgere all’interno dei servizi pubblici radio televisivi. Finalmente oggi un segnale positivo arriva anche dal nostro servizio radio televisivo pubblico. Grazie alla direzione di “Rai per il Sociale” prima, adesso “Rai per la Sostenibilità”, dal 2022 è stato creato un Tavolo per le Diversità Culturali.
Ispirandosi a iniziative già sperimentate dalla Bbc e da altre televisioni europee di servizio pubblico, Rai ha proceduto con iniziative come “No Women No Panel” e alla definizione di una policy di genere. “Si sta iniziando una raccolta dati delle presenze femminili nei programmi, facilitandone la presenza per i vari settori possibili. Analogamente si intende lavorare per arrivare ad avere una rappresentazione delle diversità etniche quanto più ampia possibile (on screen e off screen)” ha dichiarato il direttore di Rai per la Sostenibilità Roberto Natale. Al Tavolo siedono singoli attivisti e attiviste e anche COSPE insieme ad altre associazioni nazionali quali Italiani senza Cittadinanza, Congi, Arci, Lunaria e ovviamente l’Associazione Carta di Roma. Un glossario e un database ovvero “un elenco di referenti stranieri, di origine straniera e di organizzazioni della società civile da mettere a disposizione delle redazioni” i prossimi impegni presi al Tavolo. “È complesso vivere in un Paese in cui la discussione sul razzismo, ma anche quella sul femminismo, è anni luce indietro rispetto agli altri. Se accendo la televisione a parlare di questi temi trovo spesso gruppi di anziani uomini bianchi. Come posso sentirmi rappresentata? Gli unici luoghi in cui mi sento ascoltata sono i social network» ha affermato in un’intervista del 2021 la scrittrice Djarah Kan. Oggi come allora sosteniamo che la coesione sociale e il futuro di questo paese passa anche da qui. Rendere i media diversi e plurali non è più un obiettivo è ormai un obbligo.