di ANGELO FERRACUTI
“Alla vigilia del voto ho raccolto il punto di vista dei popoli amazzonici”
Alla fine di settembre sono partito di nuovo per il Brasile. Volevo raccontare le elezioni presidenziali brasiliane viste dal punto di vista dei popoli indigeni, e così arrivato a Boa Vista ho intervistato lo storico indigenista Carlo Zacquini della Missione Consolata, amico del popolo Yanomami. Angosciato, mi ha parlato della situazione difficile dei popoli nativi, dei fiumi inquinati, dell’attività illegale dei cercatori d’oro e delle precarie condizioni sanitarie dei villaggi, peggiorata dal Covid 19: “Mancano anche i medicinali per la malaria, che tra i popoli indigeni fa molti morti, ma loro hanno difficoltà a capire la politica, finiscono per essere manipolati e vendere il voto. In questi ultimi anni però si sono organizzati: ci sono leader molto preparati e c’è stata una candidata indigena alla vicepresidenza della Repubblica, come Künã Yporã Tremembé, tutte cose impensabili pochi anni fa”. Zacquini in quel momento guardava con cauto ottimismo a questo nuovo protagonismo indigeno: “Oggi molti di loro sono attivi in politica per difendere i loro diritti, sono 181 in tutto il Brasile, come Bartolomeu da Silva, Bartô, un artista. Queste elezioni saranno molto importanti per capire se il popolo brasiliano è realmente anti indigeno o no, e se è contro l’evidente barbarie ecologica”. Il candidato al Senato del Roraima Bartò, incontrato in una festa privata nelle periferie della città, mi ha parlato del suo impegno di artista e militante: “La mia bandiera è difendere il mio popolo e l’Amazzonia”. Mi ha confermato che con Bolsonaro era aumentata la presenza di cercatori d’oro che si erano introdotti illegalmente nei territori indigeni, diffondendo anche il Covid 19 nei villaggi. “L’estrazione non porta benefici, così come il turismo invasivo”, mi ha detto, “non porta altro che fango e mercurio. E anche la paura, gli stupri e la violenza all’interno delle comunità, bisogna invece sviluppare l’agricoltura familiare. Sono anche contrario alla costruzione di dighe idroelettriche. Perché non puntiamo sull’energia solare, visto che abbiamo il sole tutto l’anno nello stato di Roraima?”. Il giorno dopo ho noleggiato un’automobile, un Fiat minivan, e ho imboccato la Br174, nella regione Roraima al confine col Venezuela, dove all’inizio degli anni ’80 arrivarono col sogno dell’Eldorado amazzonico allevatori e contadini del Nordest del Brasile, in particolare della regione di Maranhão, emigrati da quelle parti spinti dal miraggio dell’attività mineraria e attraverso quella che fu definita “la strada maledetta”, dove cominciò la corsa all’oro in una regione vergine, piena di risorse e popolata da nativi che vivevano nelle loro terre ancestrali. Il mio viaggio ha assunto dunque anche un valore simbolico perché la costruzione di quella strada, tra il 1967 e il 1977, causò molti conflitti tra l’esercito e le popolazioni e molti morti tra gli Waimiri Atroari che nel 1983 si erano ridotti, da 3000 che erano agli inizi dei lavori, a 332. Durante il viaggio avevo parlato al telefono con Sarah Shenker di “Survival International”: “Le elezioni in arrivo costituiscono un momento cruciale per i popoli indigeni e per i loro territori e la tensione è altissima. Una vittoria di Bolsonaro infliggerebbe il colpo mortale alla devastazione già in corso. Molte tribù incontattate potrebbero essere spazzate via e gli ultimi sopravvissuti uccisi nei tentativi aggressivi di derubarli delle loro terre” mi ha detto dalla sede londinese dell’organizzazione “Lula ha promesso che ribalterà la situazione e che garantirà che i diritti indigeni siano rispettati.
Se sarà eletto, vigileremo per costringere il suo governo a mantenere gli impegni”. A Manaus nei giorni successivi ho incontrato Vanda Witoto, astro nascente della politica indigena brasiliana, infermiera nella periferia della città, al Parque das tribos, una terra occupata dove vivono 3000 persone di 35 etnie diverse, tra cui Apurinã, Baré, Mura, Kokama, Tikuna, Miranha, Tukano, che parlano 20 lingue. Proprio lì si era fatta conoscere durante la pandemia, salvando molte vite, quando è diventata un simbolo della lotta al Covid-19 e prima indigena a ricevere il vaccino Coronavac, mentre Bolsonaro diceva che chi si vaccinava correva il rischio di “trasformarsi in un alligatore”. “Mi danno come seconda candidatura più rilevante nello stato di Amazonas – diceva a qualche ora dal voto- oggi abbiamo avuto la notizia che la coalizione Rede-Psol può eleggere un rappresentante ed è venuto fuori il mio nome nei sondaggi”. Dopo una nottata passata nella sede del suo comitato elettorale, e una incredibile rimonta, Luiz Ignacio Lula Da Silva, dato in vantaggio da mesi nei sondaggi, ha vinto il ballottaggio ed è stato eletto presidente del Brasile per la terza volta, seppure di misura, battendo Jair Bolsonaro e ottenendo il 50,83% dei voti contro il 49,17% del suo avversario. Lula nel suo discorso della vittoria è stato chiaro: “Il Brasile e il pianeta hanno bisogno di un’Amazzonia viva”, promettendo di azzerare la deforestazione che durante il governo del Trump dei Tropici è aumentata del 75%, un’area di 24,1 mila chilometri quadrati spazzata via dai faccendieri dell’agrobusiness, promettendo di istituire un Ministero per gli Affari Indigeni e la protezione delle loro terre dalle attività minerarie o di taglio del legno.
Un altro impegno preso dall’ex elettricista e sindacalista leader del PT è stato quello di riattivare l’attività della Funai (Fondazione nazionale dell’indio) praticamente smantellata dal suo predecessore. I primi a capire l’importanza di queste elezioni per il destino del polmone verde del mondo sono stati i suoi popoli custodi, i rappresentanti delle tribù indigene raddoppiati nelle liste rispetto alle ultime presidenziali, un atto di autodifesa, tanto che entreranno nel parlamento federale Sônia Guajajara e Célia Xakriabá che militano entrambe per il Partito socialismo e libertà (Psol), sinistra radicale. Le prime indigene della storia a essere elette negli stati di San Paolo e Minais Gerais. È la vittoria della speranza.