di SABIKA SHAH POVIA
Fino ai 14 anni ero egiziano al 100% poi è iniziata la trasformazione, oggi mi sento più romano che egiziano
Mohamed Hossameldin è uno dei registi della serie di Netflix Zero, uscita lo scorso aprile e liberamente ispirata al libro Non ho mai avuto la mia età di Antonio Dikele Distefano. È stata la prima serie con un cast di protagonisti tutti neri. Il personaggio principale è Omar, un ragazzo italiano di origini senegalesi che vive in una periferia di Milano. Timido al punto di sentirsi invisibile: ciò si trasforma in uno straordinario superpotere, che lo rende davvero invisibile quando prova forti emozioni. “Avevo letto il comunicato stampa che diceva che stavano producendo la prima serie italiana nera, con protagonisti neri. Ho subito pensato che in qualche modo dovevo far parte di questo progetto”, dice Mohamed. “Era coerente con il mio percorso, quindi ho presentato una candidatura spontanea e dopo aver visto il mio showreel, mi hanno chiamato per un colloquio con Netflix e mi hanno scelto”.
Nel secondo episodio, quello diretto da Mohamed, c’è meno azione rispetto agli altri.
“È un episodio molto introspettivo e me lo hanno assegnato perché conoscono i miei lavori. È il momento di crescita e scoperta del superpotere da parte del protagonista. È anche la puntata in cui conosce e diventa amico della crew. Finalmente si sente parte di una famiglia, qualcosa che gli mancava prima. È stata una grande responsabilità avere il secondo episodio. Infatti, i primi due episodi di una serie fanno decidere lo spettatore se continuare a vederla oppure no”.
Identità e integrazione sono i temi principali che il regista affronta nei suoi lavori, e sono anche i temi che affronta Zero in questa serie sui supereroi.
“Chi nasce con due culture, o abbandona la ricerca di una consapevolezza e non si fa domande, scegliendone una piuttosto che l’altra, oppure fa una ricerca e capisce chi è. Io ho scelto di fare questo lavoro, nonostante non sia facile conoscerti, capirti e trovare risposte”, confessa. “Per questo sono più interessato a raccontare persone e personaggi simili a me, con conflitti di identità, e personaggi che vivono continuamente interrogandosi sul chi sono”.
Mohamed aveva 14 anni quando è arrivato a Roma. A quell’età spesso non sei tu a decidere dove vuoi vivere o chi vuoi essere. Erano almeno sette anni che suo padre si era trasferito a Roma, nel quartiere di Garbatella, dall’Egitto. Come molti padri immigrati, aveva cercato un lavoro, un lavoro qualsiasi, non importava quale. Lo aveva trovato in un garage. Un garage che sarebbe diventato un’ossessione per Mohamed.
“Il mio primo corto, Sotto Terra, è ambientato in quel garage. Racconta la storia di un ragazzo che vive e lavora lì. Invisibile agli occhi dei suoi clienti, il ragazzo soffre di solitudine e cerca di creare un legame con loro in modo da poter uscire da quella sorta di prigione, senza però riuscirci. Era autobiografico”, mi confida Mohamed. “Mi sono anche un po’ trattenuto perché non avevo la maturità di oggi quando l’ho scritto. Era un corto nato di getto, dalla frustrazione e la rabbia dopo l’ennesimo attacco razzista in Italia, quello di Macerata. Adesso sto partendo da lì per sviluppare un lungometraggio proprio in questi giorni, che però non parlerà di me nello specifico”.
Il quartiere di Garbatella in cui è cresciuto Mohamed, in passato considerato una borgata popolare un po’ malfamata, oggi è un quartiere con una sua forte identità e noto per il suo fermento culturale. Gli chiedo se crescere lì abbia in qualche modo contribuito a formarlo.
“Non è una domanda facile”, mi confessa. “Non ho avuto l’occasione di vivere questo quartiere quando ero ragazzo. Frequentavo un liceo arabo, libico per la precisione, sulla Nomentana, dall’altro lato della città. Quindi la mattina presto prendevo i mezzi, andavo lì e stavo in questa bolla astratta ed esclusa dal mondo fuori. Quando nel pomeriggio tornavo a Garbatella, facevo il turno nel garage dove lavorava mio padre. L’unico contatto che avevo era con i clienti del garage, che vedevano questo ragazzino che parlava un romano con accento strano”.
Ora che mi racconta la sua storia capisco perché quel suo primo corto era autobiografico. E non era neanche l’unico.
“Per i cento anni della Garbatella mi hanno chiesto di realizzare un video. Si chiama Climax, e racconta di un’anima
prigioniera di un garage che cerca di uscirne e, quando ci riesce, non incontra nessuno. Il quartiere era bello, ma io ero comunque solo”.
Inizio rendermi conto di quanto deve essere stato frustrante e difficile bucare quella bolla in cui viveva. “Come hai fatto?” gli chiedo.
“Non mi sono integrato subito, è stata dura”.
Forse era anche colpa di quei genitori immigrati, nostalgici, il cui corpo era in Italia, ma il cui cuore era ancora in Egitto. Quei genitori che faticavano ad accettare che la loro vita fosse qui, e che, come dice Mohamed, vivevano come se fossero “in guerra”.
“L’immigrazione all’inizio per loro era come andare in missione, in guerra”, mi spiega.
“Lavoravano, risparmiavano, vivevano una vita limitata e ristretta, sempre con il sogno di prima o poi tornare a casa e costruire qualcosa in Egitto. Mi dicevano cose come, ‘Tra tre anni magari torniamo, quindi intanto vai alla scuola libica’. Per me questo rappresentava un ostacolo in più; mi impediva di sentirmi parte di questo mondo”.
E quando avete capito che non sareste tornati in Egitto? Che casa vostra era qui?
“La realizzazione è stata lenta e mai dichiarata. Prima si lavorava per ripagare i debiti, poi per costruire la casa nuova in Egitto, perché quel fantasma era sempre lì. Io provavo a farli riflettere sulle nostre scelte, ma non serviva a molto. Oggi abbiamo una casa in Egitto in cui però non siamo mai andati tutti insieme”, sospira Mohamed.
Tu hai mai pensato di tornare a vivere lì?
“Ho una sorella che è nove mesi più piccola di me. Quando eravamo in Egitto ero molto chiuso su me stesso. Essendo una società fortemente patriarcale, crescere con due figure femminili, senza il padre di famiglia, è stato un po’ difficile per me. Ero timido e non avevo amici. Anzi, venivo bullizzato con frasi tipo ‘tuo padre fa il lavapiatti in Italia’. Vivevo con l’obiettivo di riunire la mia famiglia: o doveva tornare papà o dovevamo andare noi da lui. Alla fine lo abbiamo fatto. È vero che anche qui non era facile, ma almeno stavamo insieme. Ho percepito qualcosa per cui stavo più a mio agio qui. Qui sentivo che avrei potuto costruire qualcosa, lì no…” poi ridendo aggiunge, “Ero solo egiziano al 100% fino ai 14 anni, poi è iniziata la trasformazione che mi ha portato a sentirmi più romano che egiziano oggi”.
E quando è cominciata la tua trasformazione in regista? gli domando per scherzo.
“Anche se lavoravo nel garage con mio padre, sapevo che non era quello che volevo dalla vita. Non volevo essere l’immigrato di prima generazione che vive per il lavoro, volevo creare una vita diversa per me. Provavo a fare altri lavori e mi sono imbattuto nel mondo della tv. Dopo qualche anno di lavoro come operatore, ho deciso di tornare a studiare. Mi sono iscritto alla Rufa per fare cinema. È stata la mia rinascita”.
Oggi Mohamed fa dei lavori che sono apprezzati da un pubblico molto variegato.
“Nei miei film si riconoscono anche ragazzi che hanno altri tipi di conflitti di identità. Io non mi soffermo tanto sull’essere straniero o italiano, ma rifletto proprio sul chi sono, al di là delle bandiere. Un ragazzo che sta scoprendo la sua omosessualità si può riconoscere in quel conflitto interiore, proprio come ci si può riconoscere qualcuno che sta soffrendo di solitudine”.
Infatti anche Zero non voleva essere una serie che parlava di integrazione o a un pubblico esclusivamente di neri italiani. Il suo obiettivo principale era quello di qualunque altra serie sui supereroi: intrattenere.
“La serie nasce come una serie di genere superhero. Sarebbe stato sbagliato portarla in un’altra direzione”, mi conferma Mohamed. “Trovo che abbia affrontato in modo bilanciato i temi che gli autori e Netflix avevano voglia di affrontare. Poi può piacere o non piacere, ma rimane la prima serie italiana che ha dato la possibilità di essere protagonisti nel mondo audiovisivo a dei ragazzi che prima facevano solo ruoli stereotipati”.
Quindi ne è valsa la pena anche se non ci sarà una seconda stagione? gli chiedo.
“C’è una foto di Dave, l’attore che interpreta Zero, circondato da bambini che gli chiedono selfie o autografi. Inserire nell’immaginario dei giovanissimi che un ragazzo nero può essere un supereroe, per me, è stato il traguardo più importante. A me è bastato questo per fare la serie”.