INSORGENTE. LA DONNA CHE SEPPELISCE I MIGRANTI

SONIA BERMÙDEZ ROBLES

di DIEGO BATTISTESSA

“Nella vita bisogna essere audaci…

io rispondo solo al todopoderoso”

Si chiama Sonia Bermúdez Robles, ha 65 anni e vive a Riohacha. Siamo nella parte nord della Colombia, nel dipartimento della Guajira, di fronte al Mar dei Caraibi, a pochi km dalla frontiera con il Venezuela.

Sonia è una donna forte, integra, determinata e guidata da una profonda fede. La sua storia è fonte di ispirazione per quanti e quante vivono ogni giorno la solidarietà come missione di vita e praticano l’ospitalità cosmopolita come seme per la Pace. Ad oggi nel cimitero da lei creato negli anni ’90, ha sepolto centinaia di cadaveri di migranti venezuelani: persone che arrivano dal vicino Paese afflitto da una grave crisi umanitaria (a migliaia negli ultimi anni) cercando una vita migliore in Colombia oppure in transito per raggiungere un’altra destinazione. A volte però il viaggio finisce prematuramente, la morte sopraggiunge improvvisamente e per diverse cause, e al dramma migratorio si aggiunge il dramma della perdita di una persona cara. Le famiglie delle persone decedute, nelle maggior parte dei casi residenti in Venezuela, non possiedono i mezzi economici per pagare una sepoltura e le autorità amministrative di Riohacha declinano la responsabilità verso lo Stato venezuelano che dovrebbe farsi carico del ripatrio della salma. Niente di tutto questo succede ed è qui che interviene Sonia. Lei si prende cura della salma, contatta le famiglie (quando possibile), garantisce un funerale e una degna sepoltura. Permette un ultimo saluto.

Durante tutta la sua vita Sonia è stata a contatto con la morte, fin da quando ancora bambina aiutava suo padre, che lavorava come incaricato del cimitero di Riohacha. La casa della famiglia Bermúdez Robles si trovava al lato del cimitero e Sonia ricorda come da bambina le capitava spesso di giocare tra le tombe e presenziare alle sepolture. Tutto questo l’ha resa immune alla vista dei cadaveri e molto presto, ancora adolescente si è offerta di poter lavorare nell’obitorio della città. Dopo aver terminato gli studi ed aver appreso a realizzare necroscopie inizia a lavorare nell’istituto di medicina forense di Riohacha e più tardi continua gli studi a Bogotá per specializzarsi in tanatoprassi (l’insieme delle cure rivolte al trattamento estetico delle salme prima delle esequie). Per decenni Sonia lavora facendo autopsie (circa 5000) in una Colombia attraversata da molteplici conflitti e da una violenza generalizzata. Nel 1996 decide di fondare l’organizzazione “Gente como uno” (Gente come noi), e di creare un cimitero che porta lo stesso nome. La sua storia e arrivata alla ribalta internazionale a partire dal 2018, quando la crisi migratoria venezuelana ha investito la Colombia e ben presto i piccoli centri urbani si sono trovati a dover affrontare molteplici emergenze: una delle quali era la sepoltura dei migranti deceduti. Sonia, in prima linea da sempre, ha subito offerto il suo aiuto e il cimitero di “Gente como uno” è diventato ben presto l’ultimo luogo di conforto per coloro che hanno visto un loro caro partire due volte…

Quando la raggiungo nel suo cimitero, a 10 km dalla città di Riohacha in direzione di Valledupar, Sonia e il suo team si stanno preparando per la sepoltura di un neonato. “Si tratta del figlio di una famiglia vulnerabile colombiana – ci racconta Sonia- loro conoscono il lavoro che realizziamo in questo cimitero. Fin dall’inizio abbiamo dato sepoltura agli indigenti e agli N.N. (dal latino nescio nomen: non conosco il nome ndr) e continuiamo ad offrire appoggio a chi non ha risorse economiche per poter pagare una degna sepoltura ad un familiare.”

Mentre lei parla, posso osservare che il signor Fran, aiutante manovale di Sonia (che costruisce personalmente i loculi, cazzuola in mano), sta predisponendo il necessario per la sepoltura in una particolare zona del cimitero. “Arrivano molti neonati nel cimitero, nati morti o deceduti dopo pochi giorni dalla nascita”, continua Sonia e aggiunge “la maggior parte sono figli di donne venezuelane che camminano per chilometri sotto il sole, nonostante siano incinte. La denutrizione, lo sforzo, lo stress, spesso causano parti prematuri e influiscono in modo molto negativo sullo sviluppo del feto. I passaggi ufficiali di frontiera tra Colombia e Venezuela sono chiusi ma il flusso migratorio non si è fermato. I migranti pagano gruppi irregolari per passare attraverso punti di frontiera non vigilati e poi camminano, con bagagli e figli piccoli, sotto il sole inclemente della Guajira, spesso per tutti gli 80 km che separano Maicao da Riohacha. Molte di loro vengono in cerca di una visita medica, di un ospedale dove partorire in sicurezza, di misure minime per il monitoraggio della gravidanza. Qui ci sono io ad aiutarle quando perdono i loro figli ma cosa succede dove non c‘è Sonia? Nelle altre frontiere più a sud, nelle altre città: pensando a queste donne in lutto, traumatizzate, spossate e prive di aiuto mi si stringe il cuore…” Immagino che vorresti arrivare dappertutto (le dico) ma è davvero impressionate quello che stai realizzando qui, nonostante la pandemia. Sonia annuisce però puntualizza:

“Quello che mi ferma dallo spostarmi in altre zone è che non possiedo un veicolo adatto al trasporto delle salme, un carro funebre che mi permetta di poter andare a recuperare i cadaveri nelle altre città della Guajira e anche in altri dipartimenti vicini: ricevo settimanalmente richieste di aiuto da altri comuni distanti da Riohacha e mi frustra non poter aiutare quelle persone”. A questo punto Sonia mi mostra tutta l’estensione del cimitero e mi racconta come e perché nel 1996 decide di imbarcarsi in questa impresa, che continua a sembrare folle ai più.

“Quelli che vedi sono poco più di cinque ettari di terreno. Abbiamo costruito pochi loculi in relazione all’estensione del cimitero e questo è dovuto principalmente al fatto che realizziamo questa attività con fondi propri. Il comune di Riohacha ha creato una convenzione di cooperazione con la fondazione “Gente como uno” ma l’apporto economico che riceviamo per prestare un servizio (che dovrebbe essere realizzato dal municipio per legge) è davvero irrisoria. Noi ovviamente non realizziamo questa attività per i soldi, ma per la dignità dei defunti e delle loro famiglie: spesso però sopperire a tutti i costi (la bara, il cemento e tutto il necessario per la sepoltura) è molto complesso…

Negli ultimi anni l’Onu, nello specifico l’Unhcr e la Oim, hanno aiutato la nostra attività comprando il necessario per le sepolture e garantendoci una importante quantità di cemento. È così che chiediamo e riceviamo aiuto: non abbiamo mai chiesto denaro ma donazioni in specie per poter sopperire alle necessità legate alle sepolture”. E poi ricomincia a ricordare:

“Pensa che quando ho iniziato e metà degli anni ‘90 l’ho fatto proprio scontrandomi contro il Comune. Questo terreno era del demanio e io l’ho occupato. A volte penso che davvero bisogna essere audaci nella vita e che non sempre la legge equivale a giustizia, soprattutto in luoghi come questi dove imperversano il malgoverno e la corruzione, anche nelle entità religiose. Per questo io rispondo solo al todopoderoso (Dio) e non alla Chiesa, con la quale ho avuto moltissimi scontri. Prima di occupare il terreno, avevo iniziato ad avere problemi con le autorità amministrative e religiose locali, riguardo alla sepoltura degli N.N. e degli indigenti per i quali non esisteva la copertura delle spese di sepoltura.

Allora ho pensato che se la sepoltura di quelle persone era responsabilità del Comune e quel terreno era proprietà del Comune, non facevo nulla di male occupandolo per compiere un dovere civico che le autorità amministrative e religiose si negavano ad adempiere. Seppi, dopo, che quel terreno era stato ceduto per la costruzione di un carcere ma non mi detti per vinta e cominciai a costruire un padiglione. Dove oggi trovano posto i corpi dei migranti venezuelani deceduti nel 2019 e 2020. A fatto compiuto, l’amministrazione comunale ha dovuto cedere e così è nato ufficialmente “Gente como uno”.

Oggi con me lavorano il signor Fran e la signora Sista Velasquez, assistendomi sia qui che nel cimitero centrale, quello che dovrebbe essere a carico del comune ma che da circa un anno mi è stato affidato dall’amministrazione di Riohacha”. La ascolto colpito dalla sua forza e dalla sua lucida determinazione. La immagino mentre affronta da sola esponenti della politica locale, sacerdoti, polizia e prefettura, difendendo la dignità dei defunti e il loro diritto ad essere sepolti sopratutto per i migranti. Ma quanti sono i venezuelani sepolti in questo lembo di terra?

“Credo ormai siano più di 500. Dal 2018, l’anno in cui davvero abbiamo capito che non sarebbe stata un’emergenza passeggera, realizziamo almeno una sepoltura al giorno, molto spesso sono venezuelani. La maggior parte di loro sono bambini e persone anziane. I venezuelani che muoiono in questa zona sono vittime, quasi sempre, di malattie croniche e di denutrizione (nel caso dei più piccoli). Sono pochissime le morti violente. Le persone anziane arrivano qui per cercare trattamenti o farmaci irreperibili in Venezuela ma nella maggior parte dei casi la loro salute è così compromessa che muoiono poco dopo il loro arrivo. Altri muoiono per lo sforzo migratorio, per i patimenti sofferti e anche, credo, per il dolore di abbandonare la loro terra. Ci sono però anche casi di suicidio come questo…”.

Sonia mi indica due loculi in particolare, su uno si legge il nome di Adriana e su quello sottostante quello di Daniel (suo figlio): “Adriana -racconta Sonia– arriva a Riohacha nel 2018 insieme a suo figlio e alla giovane compagna di lui. In Colombia cercava migliori condizioni di vita ma le sue speranze furono vane. Trovava solo porte chiuse e così cadde nella depressione. Dopo due mesi dal suo arrivo venne stroncata da un infarto e io sono sicura che è morta di crepacuore, per i patimenti, la fame e il dolore causato dalla situazione. Suo figlio Daniel venne a cercarmi disperato e io lo accompagnai a prendere il corpo di sua madre, lo portammo all’obitorio del cimitero centrale e il giorno dopo gli demmo degna sepoltura. Daniel era sotto shock e nove giorni dopo, sconvolto dal lutto per sua madre, dalla fame e dalla disperazione, si impiccò ad un albero…” .

A questo punto realizziamo la sepoltura del neonato e posso vedere come Sonia stessa si faccia carico di tutta l’operazione. Presenti ci sono la zia e la nonna del piccolo defunto oltre a due dei figli di Sonia, che fin dall’infanzia hanno accompagnato la madre in questo progetto. Una volta terminata la sepoltura c’è ancora tempo per fare a Sonia un’ultima domanda sui suoi progetti futuri. “Il mio sogno è rendere operativo l’ufficio per l’attenzione ai cittadini vulnerabili nel centro di Riohacha, al lato del cimitero cittadino. Voglio dare supporto a persone come Daniel, voglio poter fare di più. C’è bisogno di fornire un appoggio integrale ai familiari delle persone decedute, soprattutto a quelle che vivono in estrema povertà, o nel processo migratorio e spesso anche vittime di discriminazione e rigetto sociale (xenofobia e aporofobia).

Il mio obiettivo è quello di dare un orientamento psicologico, un sostegno, tendere una mano amica ai familiari dei migranti venezuelani morti da questo lato della frontiera. Lo spazio che diventerà, spero presto, l’ufficio di attenzione agli utenti era il vecchio obitorio cittadino nel quale ho operato decine di autopsie. Io stessa negoziai l’utilizzo di quell’edificio, che si trova di fronte alla spiaggia, con i vecchi proprietari: la compagnia petrolifera Chevron-Texaco.

Ottenni la donazione dell’immobile dalla multinazionale e per anni ho lavorato li. Poi l’obitorio venne spostato nell’ospedale di Riohacha e l’edificio è rimasto abbandonato per molto tempo. Proprio l’anno scorso, casualmente, ho saputo che la congregazione che gestiva il cimitero centrale voleva vendere l’immobile: io mi sono fermamente opposta argomentando che era proprietà del comune e che io stessa avevo negoziato la cessione. Ho capito però che non sarei stata ascoltata e così ho dovuto ancora una volta occupare con la forza la proprietà. In men che non si dica ho usato i miei risparmi per riqualificare la struttura e, nonostante il nulla osta della prefettura non sia ancora arrivato, spero di aprire prima che finisca quest’anno”.

Mentre Sonia mi racconta tutto questo non riesco a nascondere la mia sorpresa di fronte ad una donna così combattiva, così “insorgente”, rivoluzionaria, e cosi disposta a difendere quelli che Galeano chiamava “Los nadie”. Sonia mi ha più volte ripetuto, durante i due giorni che abbiamo condiviso a Riohacha, che lei sente che sta costruendo la Pace, che sta impedendo che il rancore e la disperazione mettano radici e che siano il terreno fertile per la violenza.

Questa donna rappresenta un ponte tra due paesi che continuano a vivere una profonda crisi diplomatica e che nonostante una storia e una cultura comune vivono un conflittoche sembra non poter finire molto presto. Però tutti siamo uguali, specie di fronte al lutto e alla morte, come ricorda il nome del cimitero, “Gente come noi”, un monito di fronte alle divisioni e un inno alla solidarietà senza frontiere. Il secondo cognome di Sonia, quello della madre, è Robles che tradotto in italiano vuol dire quercia. E probabilmente non è un caso.

MUJERES A LA FRONTERA

COSPE ha lavorato con i migranti venezuelani -che come conseguenza della crisi umanitaria del Paese hanno rappresentato negli ultimi anni il più forte fenomeno migratorio interno dell’America Latina- dal dicembre 2018 al febbraio 2020. Si è trattato di un intervento alla frontiera Nord dell’Ecuador al confine con la Colombia, insieme a Unhcr e Onu-mujeres. In questa zona la crisi ha creato un flusso netto di oltre 500.000 persone e il passaggio di oltre 1,5 milioni di migranti. Il contesto della frontiera nord ecuadoriana è contrassegnato da una estrema povertà e fragilità sociale ed economica dove dominano l’illegalità e la criminalità legate alla presenza del narcotraffico, lo Stato è storicamente assente e la popolazione non ha accesso a servizi essenziali dignitosi. COSPE in questo contesto ha lavorato principalmente con gruppi di donne migranti venezuelane, ma anche con migranti colombiane ed ecuadoriane in situazione di vulnerabilità, privilegiando un approccio inclusivo e territoriale. Si è lavorato su diversi piani, inizialmente mappando i bisogni delle donne, e poi analizzando l’accessibilità ai servizi sul territorio per identificare le possibilità di migliorare il coordinamento tra le istituzioni. Si è realizzata un’analisi dei profili lavorativi e vocazionali delle donne (oltre 400) per la definizione di proposte mirate di riqualificazione lavorativa, per poi realizzare formazioni con i gruppi. Una parte centrale ha inoltre riguardato la promozione e affermazione dei diritti; quelli economici delle donne migranti con il sostegno all’apertura di attività economiche individuali e/o associative. L’altro asse del lavoro ha riguardato la prevenzione e risposta alla violenza di genere sulle donne e alla tratta. Il percorso ha visto un brusco rallentamento durante la pandemia da Covid-19. Si attende ora che il sostegno all’integrazione possa ripartire e riprendere una posizione di maggiore attenzione nell’agenda delle organizzazioni internazionali nella regione.

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