Le misure anti Covid e i fanatismi religiosi hanno reso molto più dura la vita delle persone LGBTQI durante la quarantena
“È importante per noi riconoscere i nostri peccati contro il mondo, in particolare gli atti più abominevoli come omosessualità, lesbismo, transgenderismo, distruzione di bacini idrici e foreste”. Così Amin Bonsu, presidente della Ghana Muslim Mission, un’importante organizzazione sunnita ghanese, parla ai fedeli durante la pandemia. Ma Bonsu, che ritiene le persone Lgbtqi colpevoli di aver scatenato la punizione divina “Covid-19”, è in buona compagnia, in tutta l’Africa, ma anche in Europa, in America Latina e negli Stati Uniti dove, soprattutto i predicatori evangelici, si sono scatenati. Ma se, in gran parte del mondo, le persone Lgbtqi sono soggette a discriminazioni, violenze e abusi, in Africa il fenomeno è particolarmente grave: in almeno 4 paesi (Mauritania, Sudan, Nigeria e Somalia) esiste ancora la pena di morte. In altri 32 l’omosessualità è illegale e le pene vanno dai 2 ai 10 anni di carcere (cfr. rapporto Amnesty 2019 ). In molti dei restanti paesi l’omosessualità è tollerata legalmente ma non culturalmente. Il tasso di suicidi nella comunità Lgbtqi è di circa il 10% in più rispetto all’Europa e al Nord America e circa due terzi di loro dicono di aver subito violenze. Questo prima del Covid-19. Con la pandemia, le cose si sono aggravate: “La quarantena con familiari ostili porta le persone gay, lesbiche e transgender ad essere più esposte alla violenza degli stessi familiari -ci racconta Sam Ndlovu dell’organizzazione Treat (Trans Research, Education, Advocacy & Training) in Zimbabwe- che spesso non accettano il loro orientamento sessuale. Oggi molti lamentano gravi problemi per l’accesso ai servizi sanitari, anche per le cure ormonali o per assumere antiretrovirali. A questo si aggiungono, in molti casi, la perdita di un alloggio e soprattutto del lavoro, spesso informale e precario. Si registra inoltre un aumento, registrato dalle organizzazioni della società civile, di maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine”. Senza contare i tanti episodi di hate speech sui social, alimentati anche da dichiarazioni farneticanti di leader religiosi. Tutto questo porta a problemi di salute mentale, depressioni e tentati (o riusciti) suicidi. A denunciarlo, con una lettera aperta all’Indipendent Expert dell’Onu sulla protezione contro la violenza e la discriminazione basata sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, Victor Madrigal-Borloz, sono le organizzazioni per i diritti Lgbtqi di Zimbabwe, Eswatini e Malawi, tra cui la Treat di Ndlovu, partner di COSPE nel progetto europeo “Out and Proud”, che nasce proprio per dare voce e visibilità a queste organizzazioni e a dare loro sostegno nel chiedere ai governi forme di protezione adatte e leggi che tutelino i diritti Lgbtqi ma anche nell’organizzare campagne di sensibilizzazione culturale attraverso i media su questo tema. Perché è lo stigma, prima ancora delle leggi che in questi paesi fa molte, molte vittime. “Ci sono gruppi instagram o social omofobi –continua Sam- che incitano apertamente a “dare la caccia” e a denunciare “i nascosti”, altri che li ritengono responsabili per la chiusura delle scuole e della pandemia in generale. Un attivista che conoscevamo si è suicidato qualche settimana fa per una depressione esacerbata dal lockdown”. E molti altri sono i casi che, ci dice, stanno seguendo, una donna transgender è vittima dei familiari che non le danno più il cibo perché non porta soldi a casa, un ragazzo è stato buttato fuori di casa e dallo Zimbabwe è scappato in Sudafrica senza alcun mezzo di sostentamento, altri denunciano gravi violenze, tra queste “lo stupro correttivo” a cui sono sottoposte le donne lesbiche, oltre ad altre situazioni di violenza familiare. Molti, in situazioni così gravi, hanno iniziato a prostituirsi anche a casa o violando il lockdown. Ma che cosa si potrebbe fare per tentare almeno di arginare la situazione? “La chiave -conclude il portavoce di Treat- sarebbe rafforzare i sistemi di risposta alle violazioni attraverso la collaborazione di tutte le associazioni della società civile, ma attualmente, almeno in Zimbabwe, questo non accade. E le organizzazioni lavorano per compartimenti stagni. Le questioni Lgbtqi poi sono particolarmente spinose e rimangono fuori dal discorso pubblico”. Le associazioni, attive nei paesi, però stanno lavorando a una rete di assistenza per raccogliere denunce, rispondere ai rischi e portare proposte di nuove leggi a tutela alle persone Lgbtqi di fronte ai legislatori nazionali. Un lungo lavoro che la pandemia ha reso più complesso ma anche accelerato, per la gravità delle situazioni emerse.
di Pamela Cioni