Un talk di femministe racconta l’(ardua) impresa di essere donna
L’attuale crisi scatenata dalla pandemia ha fatto emergere molte contraddizioni, fragilità, vulnerabilità della nostra organizzazione sociale. Difficile quindi dire che questa crisi sia piuttosto economica o sanitaria o sociale. E le donne dagli spazi accademici, dai movimenti femministi, dagli spazi culturali e politici più differenti a livello italiano, europeo e globale hanno ripetuto in questi mesi che questa crisi non può essere scaricata sulle donne, su quel lavoro di cura non pagato o sottopagato quando viene delegato ad altre donne, sulla capacità di conciliare sempre e comunque, su quell’assumersi le vulnerabilità e le fragilità della società per ruolo imposto. La crisi attuale ci sta quindi obbligando a focalizzarci sulla vita e sulle attività vitali come la sanità, la cura sociale, la produzione e distribuzione di viveri e a mettere tutto questo al centro. Di questo abbiamo parlato nel seminario del 4 giugno, “L’impresa di Essere Donna: economia, diritti, riproduzione sociale”, con economiste e filosofe femministe e attiviste: Antonella Picchio, economista, Giovanna Badalassi economista e co-autrice del blog Ladynomics, Marie Moïse filosofa e co-redattrice della rivista Jacobin, Sara Stevano economista femminista dell’università di Londra. Un seminario denso che inizia con una rilettura del nostro contesto socio economico che scardina molte delle visioni a cui siamo abituati e abituate: “Il sistema economico -dice Antonella Picchio entrando subito nel vivo- è definito da produzione, scambio e distribuzione della ricchezza a cui poi si aggiunge la riproduzione sociale della popolazione, come se fosse un effetto finale non ben collocato. Invece l’assunzione dello sguardo femminista vuol dire porre immediatamente la riproduzione sociale al centro, come il passaggio per definire tutto il resto”. Secondo la Picchio infatti l’esperienza della cura delle donne è un’esperienza che modifica anche la visione etica del sistema economico. “La cura -dice- è un’esperienza di responsabilità verso sé stessi, e quindi un continuo esercizio di presa di responsabilità”. Il problema è che questo lavoro, che sostiene tutti gli altri lavori, è un lavoro non pagato. “La visione per cui dovremmo entrare nel mercato del lavoro e starci, non è affatto vera, perché è proprio il “non pagato” quello che consente al sistema, che è fondato sul lavoro come merce, di pagare quella merce molto meno.” Ripartendo dalla parola “cura” invece Giovanna Badalassi ci dice che “Il Covid è una crisi di cura”. E in questo senso “le donne sono state protagoniste a tantissimi livelli di questa crisi. Eppure il sistema sembra proprio essere stato cieco di fronte a questa soggettività.” Le donne sono infatti state in prima linea nelle famiglie, nelle attività di cura ma anche in prima fila in tutti quelli che sono stati i servizi essenziali. “Nei settori ad alto rischio (più a contatto con la malattia o più a rischio di contagio) –dice Badalassi- le donne erano 67,3%, una percentuale molto elevata rispetto alla presenza delle donne nel mercato del lavoro”. Il lavoro di cura però non è solo sessualizzato, ma anche razzializzato. A ricordarcelo Maria Moïse che con il suo intervento introduce la questione dell’asimmetria di condizioni di vita tra donne anche nella riproduzione sociale: “Questa parte del lavoro (di cura) all’interno del sistema economico capitalistico occidentale viene appaltata di fatto alle donne razzializzate, migranti, che si trovano quindi a fare quella parte di lavoro riproduttivo da cui le donne hanno lottato per sottrarsi, per emanciparvisi”. E non solo tra le mura domestiche: “Pensiamo ai nostri uffici e alle università, agli spazi pubblici, alle metropolitane, ai nostri ospedali che sono andati avanti in termini essenziali in questi mesi di emergenza, al lavoro delle badanti, tutto questo è oggi ormai appaltato alle donne razzializzate, migranti, ricattabili per il fatto di avere in tasca dei passaporti di serie B”. Quello che emerge dunque secondo la Moïse è che “non c’è semplicemente un lavoro di riproduzione sociale del sistema economico che stiamo andando ad analizzare ma c’è una riproduzione sociale della bianchezza, nel suo senso più metaforico ma anche simbolico perché sono donne non bianche a permettere al mondo bianco di esistere”. Questa asimmetria si trova anche tra sud e nord del mondo, secondo le parole di Sara Stevano economista femminista che si è occupata anche di economia delle donne in alcuni paesi del sud del mondo. “L’idea che le diseguaglianze tra donne e uomini devono essere ridotte in virtù dei benefici degli effetti positivi dello sviluppo dell’economia soprattutto a livello familiare ha portato a progetti, politiche e misure che vedono le donne come beneficiarie fondamentali delle politiche economiche sociali di sviluppo. Questo approccio strumentale ha un’importante conseguenza – afferma Stevano- la creazione della donna, soprattutto della donna del Sud del mondo come agente di riduzione della povertà e di mantenimento del benessere sociale ed economico, che fondamentalmente si basa sul fatto che le responsabilità riproduttive delle donne debbano essere mantenute saldamente nelle mani delle donne”. Un modo per addossare la responsabilità di welfare alle donne che presenta delle sinergie “ottimali” con alcuni processi più ampi che sono avvenuti sia nella fase del capitalismo neoliberale sia nel processo di precarizzazione del mercato di lavoro. ”Le economiste e anche le antropologhe femministe hanno dimostrato –continua che la famiglia non è necessariamente un luogo di altruismo, di cooperazione, ma può essere un luogo in cui le disuguaglianze soprattutto di genere e di età vengono riprodotte e quindi quando si ha questo processo di trasferimento di responsabilità dallo Stato alle famiglie (che è stato un processo definito da Isabella Backer “privatizzazione della riproduzione sociale”) questo ha delle conseguenze in termini di riproduzione di disuguaglianze di genere”. Ma dunque quale proposta politica portare avanti? “Questo discorso sul lavoro non pagato -conclude Antonella Picchio- diventerà davvero radicale quando questo sarà la nostra priorità e su questo abbiamo bisogno degli uomini perché non possiamo continuare a curarli. In questo senso la proposta di reddito sul lavoro di cura, che non è per pagare il lavoro di cura ma un reddito che diventa “la cura”, pone anche la radicalità del discorso sul denaro. Nelle case si inverte il senso delle attività: nella produzione sono per il profitto, nelle case sono per il benessere delle persone, ed è questo senso che deve diventare il senso dello Stato, dello sviluppo, e anche del denaro, ma ci vogliono lotte precise perché questo succeda, perché sennò questa inversione di senso ricadrà sempre su di noi, comprese sulle donne di razza diversa o di classe diversa. Soprattutto su di loro. Il discorso del reddito e del salario al lavoro domestico è nato dalle donne nere di New York che dicevano “ma noi non vogliamo altro lavoro, già ne facciamo tanto, vogliamo non odiare i nostri figli quando torniamo a casa, dopo che abbiamo lavorato 12 ore in ospedale”.
“Le donne sono state protagoniste di questa crisi a tanti livelli”
di Debora Angeli